Chi non dialoga con noi va contro l'Italia
Intervista di Oscar Giannino al ministro Giulio Tremonti a "Libero" del 27 luglio 2008
Economia sociale di mercato, è questa la formula usata da Berlusconi e Tremonti per indicare la cifra della linea seguita in politica economica dal governo.
In Germania, è stata la Globalsteuerung, lo stimolo economico generalizzato attraverso il quale Konrad Adenauer e Ludwig Erhard nei primi anni Cinquanta unificarono le matrici della politica fiscale, monetaria, dei redditi e del commercio estero, al fine di rimettere i tedeschi al giusto posto nel novero delle democrazie avanzate. Ma nell’Italia del 2008, che cosa significa, concretamente, l’“economia sociale di mercato”? Lo abbiamo chiesto a Giulio Tremonti, che ne è non solo convinto fautore, ma soprattutto, nel governo dispone con il premier degli strumenti per darle forma e sostanza.
«Siamo entrati in una fase in tutto e per tutto non ordinaria. La crisi finanziaria e le sue conseguenze nell’economia reale impongono di vigilare e intervenire con tempi e strumenti nuovi, rispetto alla prassi pluridecennale del nostro Paese. E la nostra risposta è, appunto, l’economia sociale di mercato».
Un esempio concreto.
«Eccolo. Martedì prossimo, a Palazzo Chigi, un incontro con le parti sociali che inaugura una stagione del tutto nuova».
C’è del nuovo, nel vedersi con le parti sociali?
«Altro che. Il rito italiano per decenni ha previsto che gli incontri con le parti sociali avvenissero due volte l’anno, su Finanziaria e Dpef. Da martedì la novità, se accolta come spero, potrebbe essere quella di incontri con modalità, ordine del giorno e obiettivi del tutto diversi».
Veramente i sindacati attaccano da settimane, proprio perché sulla manovra pensano di aver inciso poco o nulla.
«La discussione all’interno del governo ci ha portato all’elaborazione di un’idea che non è tanto di merito, ma di metodo. Le nostre idee sul merito – sul cosa fare – hanno preso forma nei documenti e provvedimenti che compongono la manovra. Si tratta della stabilizzazione triennale del bilancio pubblico e della perequazione tributaria, dell’agenda di Lisbona, del federalismo fiscale. La prima parte di questi interventi sta per assumere piena forza di legge. La seconda parte è in fase di avanzata lavorazione. La terza, verrà in autunno. Non solo la struttura dei conti pubblici è stata definita e stabilizzata in un orizzonte di tre anni e non più di uno solo. Ma ha anche preso forma prima dell’estate, evitando al Paese il rischio e i danni connessi alla stagione di “rissa finanziaria”».
C’è chi osserva che in questo modo la legge finanziaria è abolita con un tratto di penna. E il Quirinale ha avanzato delle obiezioni.
«Nessun problema. Le garantisco. Lo ripeto: nessun problema».
Niente più assalti alla diligenza, comunque.
«Si ritorna dopo tanti anni al principio di responsabilità. Tale principio ci ha portato a respingere tutte le ipotesi “deficiste”, tutti gli inviti ad accendere maggiore spesa pubblica, finanziata con coperture fittizie o, peggio, inesistenti. Quella prassi, basata sul debito pubblico, aveva finito per svuotare il principio base della democrazia, il no taxation without representation».
Il punto due della manovra è l’Agenda di Lisbona, ha detto. Si riferisce a programma approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di governo dell’Ue nel 2000, con l’obiettivo di fare dell'Ue la più competitiva economia entro il 2010.
«L’Agenda di Lisbona è stata finora un’astrazione materializzata da un nome. Ha dei limiti, il primo è l’illeggibilità, il secondo è geopolitico. Scritta alla fine degli anni ’90 non contiene ancora la parola Asia, essendo tutta costruita sul vecchio confronto-competizione con l’America. Tuttavia l’Agenda di Lisbona rappresenta il massimo sforzo politico compiuto dall’Europa unita per fare un salto di competitività».
Sinora, l’Agenda è servita solo per convegni.
«È vero che l’Agenda di Lisbona da noi è rimasta lettera morta. Più letteratura che leggi, più astrazione che concretezza. Non così in giro per l’Europa, però. A modo loro, calandola nei loro sistemi istituzionali ed economici, molti altri Stati europei sono avanzati sulla linea di sviluppo tracciata a Lisbona».
In effetti, la commissione Attali che mesi fa tanta attenzione suscitava in Italia, anche per il suo approccio bipartigiano, non era che il recepimento dell’Agenda di Lisbona in salsa francese.
«Con i provvedimenti assunti a giugno, anche il governo italiano compie il passo decisivo per adottare la sua Agenda di Lisbona, recuperando il tempo perduto. Dall’accelerazione decisa per il ritorno al nucleare, al piano casa. All’avvio dell’uso attivo per lo sviluppo della Cassa Depositi e Prestiti, un gigante finora addormentato».
Tra il 2003 e il 2004 proprio lei l’aveva trasformata in spa, portandola fuori dal perimetro pubblico con il consenso dell’Europa e con l’ingresso di soci privati come le fondazioni bancarie. E poi?
«Ricorderà che nel 2004 sono uscito dal governo, per rientrarvi solo per qualche mese, ormai a fine legislatura. Ma ora il gigante addormentato si sveglia, il suo ingresso in scena è in fase di avanzata elaborazione. Per cominciare la Cassa Depositi e Prestiti darà vita al fondo attuatore del “piano casa” lanciato nella manovra, e lo farà in co-regia con le fondazioni bancarie».
Anche Sarkozy vuole trasformare l’equivalente francese, la Caisse des Dépôts, in una sorta di fondo sovrano francese.
«Non sarebbe la prima volta, che si sviluppano le stesse idee in Francia e in Italia. Gli asiatici con le loro riserve hanno costituito i fondi sovrani, la Francia vuole farsi un suo fondo con la Caisse des Dépôts. Ma non credo affatto che la Caisse francese dia vita a uno strumento simmetrico rispetto a quelli asiatici. Dall’Asia con i fondi sovrani si intende investire e acquisire posizioni strategiche in Occidente. In Francia, il fine non è certo quello di comprare in Asia ma di concentrarsi nella difesa industriale e finanziaria delle proprie piattaforme più strategiche. Credo che per l’Europa, oggi, questa sia la strategia giusta, la via europea al fondo sovrano».
Altri esempi concreti di misure per lo sviluppo?
«La concentrazione dei Fondi europei di sviluppo presso il Cipe. Si tratta di un ammontare di circa 100 miliardi di euro. Abbiamo assunto questa decisione per ottimizzare il loro impiego in una strategia “colbertiana” di sviluppo, invertendo la prassi dispersiva sinora dominante dei microinterventi decisi in periferia. Occorre decidere dal centro per andare sul grande, non dalla periferia perdendosi nel piccolo come sinora è avvenuto».
L’opposizione dice che i fondi per l’investimento li avete tagliati…
«Quanto sopra è la prova matematica del contrario. Il problema dell’Italia – e in Italia del Mezzogiorno – non è quello di reperire i capitali, ma di spenderli. Non mancano le risorse da investire, in Italia e nel Sud, manca una politica forte, capace di investirli su priorità vere. In assenza di una politica forte con chiare priorità d’investimento, prevale una piccola politica di piccole opere, logiche clientelari. Col risultato che i fondi non vengono spesi e perciò spesso devono essere restituiti all’Europa e per questa via ai nostri concorrenti. I quali ci fanno più concorrenza – sul turismo, nell’agricoltura, nell’alimentare – coi nostri stessi denari che non siamo stati capaci di impiegare».
Un altro esempio.
«La liberalizzazione dei servizi pubblici locali».
Veramente l’opposizione ha gridato alla marcia indietro, dopo il testo iniziale.
«Macché. Il testo approvato recepisce integralmente le norme europee sull’apertura al mercato dei servizi pubblici locali. Con buona pace dei professionisti dell’invettiva e degli ideologi mercatisti, su questo più che allinearsi in pieno alle linee di concorrenza dell’Europa non credo che si possa fare. E nella manovra, per l’Agenda di Lisbona, c’è anche la riforma del processo civile, con l’eliminazione del sistema dei messi per via telematica. O l’abolizione dell’obbligo di atto notarile per giurare le quote societarie, misura che da sola significa circa 300 milioni di euro di costi in meno per le imprese, a parità di certezze attraverso il ricorso alla firma elettronica. E ancora: l’abolizione del divieto di cumulo tra pensione e lavoro. La drastica riduzione della burocrazia, con l’avvio del nuovo piano industriale della pubblica amministrazione di Brunetta. Non c’è mai stato come questa volta un cambiamento tanto radicale, su una pluralità di fronti e così concentrato nel tempo».
Veniamo al punto tre, dopo la stabilizzazione del bilancio e Lisbona. Il federalismo fiscale.
«Se la struttura istituzionale ed economica resta quella data, la prospettiva possibile del Paese è solo quella che abbiamo anticipato nel cosiddetto Dpef, che rappresenta lo sviluppo aritmetico delle cifre condivise con l’Europa. Per tutto ciò che occorre fare in più e di diverso, occorre cambiare prospettiva, col federalismo».
Qui l’opposizione dice: Tremonti non ha tagliato le tasse.
«Deluderà la sinistra notare che la manovra non contiene solo lo sviluppo automatico dei numeri europei, ma Lisbona e il federalismo. Con la manovra triennale abbiamo sostituito la formica alla cicala della stagione precedente. Aspettare il prossimo autunno a saldi aperti e senza finanziaria già definita sarebbe stato da pazzi. La gente lo capisce benissimo, questo. Se abbiamo regolato i conti con le cicale, i gufi restano. Faccio loro osservare che per esempio non abbiamo incorporato nelle proiezioni di crescita del Pil le conseguenze che si sprigioneranno, in condizioni meno avverse di quelle attuali, dall’Agenda di Lisbona definita. Mi lasci dire che è rivoluzionario anche il principio dell’assoluta prudenza. I deficisti di professione ci hanno criticato perché preferiamo non spendere ciò che ancor ancora non abbiamo in cassa. Difendo questa svolta come essenziale».
Torniamo al federalismo.
«Dentro il sistema dato, senza Lisbona e dentro lo Stato centralizzato, non c’è prospettiva. L’unica prospettiva per uscire da quel rigore obbligato non è violare gli impegni europei, ma rilanciare l’economia e rifare lo Stato. Nello schema dato, puoi solo mettere i conti in sicurezza. Flessibilità e dividendo fiscale possono venire solo dal federalismo fiscale. È l’unica prospettiva per il futuro. Avvieremo una consultazione vasta e approfondita, con l’opposizione e tutte le Autonomie. Il federalismo serve a raddrizzare la pianta storta dello Stato, caricato di troppe cose da fare e di troppi debiti. Lo Stato deve tornare a fare solo l’essenziale. Deve ritirarsi nel suo perimetro di competenze storiche iniziali. Le funzioni di cui è stato caricato a partire dagli anni ’70 hanno finito per introdurre un veleno che minaccia il principio essenziale della responsabilità democratica. Il federalismo sarà il modo per ridefinire dalle fondamenta una spesa pubblica più razionale – decidendo chi fa che cosa – più trasparente – assecondando il principio: vedo, voto, pago – e conseguentemente più efficiente. Sarà fondamentale conservare il doppio fondo di perequazione e di solidarietà sociale, previsto dalla Costituzione. Ma con perequazione e solidarietà sociale, dico io, che cosa c’entra che le pensioni di invalidità, che rappresentano spesa delle Regioni, siano raddoppiate in meno di 10 anni da 6 a 12 miliardi di euro? Non solo al Centro e al Sud ma a macchia di leopardo, come riflesso della degenerazione della politica in clientela».
Martedì incontrate le parti sociali. Cosa cambia rispetto alla tradizionale concertazione?
«Puntiamo a che le grandi scelte di attuazione dell’agenda di Lisbona siano il più possibile condivise. Cercando di dar vita a una logica di pensiero e di azione comune, un vero e proprio “spirito repubblicano”. Certo, tenendo conto delle diverse responsabilità e funzioni. Con il governo che fa il governo, e alla fine decide. Ma è fondamentale sentire e coinvolgere, nella costruzione di questo spirito repubblicano, tutti gli attori dell’economia reale, dalle industrie alle banche, dai lavoratori alle cooperative, dalle fondazioni bancarie agli ordini professionali. Un esempio. Una volta concentrate nel Cipe le decisioni sui 100 miliardi di fondi europei, diventa fondamentale sentire la voce delle Regioni come di tutti coloro che a diverso titolo operano nel settore delle infrastrutture».
Anche del sindacato?
«Certamente. Il grande salto è che sinora questo tipo di rapporti era o formale o rituale, con le affollatissime riunioni presso la Sala Verde di Palazzo Chigi, con una complessità corale da rendere l’agenda pressoché ingestibile. Oppure, erano poco più che una foto opportunità».
Le parti sociali sono decine. A confronto, le assemblee condominiali sono l’Atene di Pericle.
«L’idea nostra è di passare dalla foto al film. Riunioni periodiche su punti all’ordine del giorno predeterminati. Alcune ore di lavoro filate, almeno una volta al mese, con un criterio e un ordine di lavori che esso stesso rappresenti un passo verso la costruzione di uno spirito repubblicano. La squadra di governo, su questo, è coesa. Avevo chiesto che anche simbolicamente il luogo degli incontri fosse diverso. Non più la Sala Verde, ma la Biblioteca di Palazzo Chigi. Vedremo. Quel che conta è che l’agenda condivisa sarà un’agenda di lavoro. E che negli incontri ciò che conti sia l’interlocutore di fronte, non la platea ideale che hai alle spalle».
In che senso?
«Nel senso che non ci si incontra per far propaganda fuori. Giovedì scorso ho visto le organizzazioni del commercio per definire i particolari della carta pregata per i pensionati al minimo».
Una trovata antipovertà molto contestata.
«La stessa carta in America c’è da 10 anni. Oggi è in fase di avanzata sperimentazione in Inghilterra e in Olanda, con un governo nel primo caso socialista e nel secondo liberale. In quei Paesi la reazione dell’opposizione non è stata nichilista o suicida. Hanno deciso che conveniva mettersi dalla parte dei bisogni, non della rissa. Le polemiche da noi sono un segno della tendenza della sinistra a ridurre tutto a polemica ideologica. Anche quando gli si ritorce contro».
Torniamo agli incontri.
«Giovedì c’erano anche le cooperative. Al pomeriggio le ho riviste per sentirle in merito al nuovo regime di tassazione, e alla possibilità che sia è proprio il nuovo regime fiscale a chiudere il contenzioso europeo. Ecco. La logica dell’economia sociale di mercato è di passare dalla casualità discrezionale degli incontri a un sistema di trattazione sistematica dei dossier. Un metodo di confronto organico. Un dialogo continuo, non personale, o casuale».
Ma lei propone come via all’economia sociale di mercato il metodo dei seminari dell’Aspen...
«La logica del metodo Aspen in effetti è di mettere insieme esperienze diverse. Qui le porte non sarebbero chiuse, tutto è aperto in politica. Però preserverei gli interventi non oltre i tre minuti. Con riunioni preparate da documenti».
La Cgil romperà comunque.
«Per come la vedo io il metodo dell’economia sociale di mercato non è una trappola per la Cgil. Spero che lo spirito repubblicano prevalga sull’ideologia, e sul magnete dell’opposizione politica. Il rischio è che s’inverta quel che avveniva in passato. Una volta il sindacato era la cinghia di trasmissione del partito, ora rischia di avvenire l’inverso. Spero di no. Prima di assumere una scelta drastica, devi prendere un foglio bianco e tracciare una linea verticale. Scrivere da una parte gli argomenti tuoi, dall’altra quelli dell’altro. Se una colonna è tutta nera e l’altra è tutta bianca, ciò non significa aver ragione. Vuol dire che hai torto. E comunque, mi passi la battuta. Se non va bene il metodo Aspen, ricordo che anche Stalin incontrava gli interlocutori con la regola dei tre minuti».