di Michele Brambilla, "Il Giornale", 29 luglio 2008
Per una volta Antonio Di Pietro è riuscito a mettere d’accordo l’estrema sinistra con l’estrema destra. Fausto Bertinotti, per definire il peggio di Rifondazione comunista (cioè il neoeletto segretario Paolo Ferrero e i suoi epigoni) ha detto: «Questi sono peggio di Di Pietro, qui bisogna cominciare a temere per la nostra incolumità fisica, riapriranno tutte le galere». Francesco Storace, per definire il peggio della Destra e di sé medesimo, ha detto: «Se Berlusconi insiste, prevarrà il dipietrismo che è in ognuno di noi». Due uomini distanti anni luce nella concezione del mondo e degli uomini sono dunque d’accordo su un punto irrinunciabile: peggio del dipietrismo non c’è nulla, perlomeno in politica.
Più che una singolare concordanza bipartisan, le dichiarazioni congiunte di Bertinotti e Storace segnano in realtà la definitiva consacrazione di un neologismo - il «dipietrista», appunto - divenuto ormai sinonimo di giustizialista, di fanatico, di moralista, di inquisitore, di aguzzino. Finché a tracciare un simile parallelismo erano i socialisti negli anni Novanta, oppure Berlusconi in tempi più recenti, oppure ancora il nostro Filippo Facci tutti i giorni o quasi, l’uso dell’epiteto era sospetto. Ma ora che anche un uomo di riconosciuta intelligenza e classe come Bertinotti - incarnazione della sinistra al cachemire - e un altro come Storace - cioè il suo opposto: destra sanguigna e popolana - usano lo stesso termine, si può ben dire che siamo di fronte a un consenso universale. «Dipietrismo» come tortura e terrore, o almeno come paranoica caccia ai peccati altrui; «dipietrista» come seguace di siffatta dottrina; «dipietro» (tutt’attaccato) come spauracchio, uomo nero babau. È probabile che in qualche casa privata il vocabolario sia già stato aggiornato, non fare i capricci altrimenti arriva il dipietro.
Tutto questo fa onore ad Antonio Di Pietro. Diciamo sul serio. Quando il proprio cognome assume un «ismo» finale, significa che si è lasciato il segno. Che si è passati alla storia. Dopo il moroteismo e il craxismo, e contemporaneamente al berlusconismo, in Italia è arrivato il dipietrismo. Ma non solo. A differenza del moroteismo, del craxismo e del berlusconismo, il dipietrismo è addirittura giunto a sostituire figure ben più radicate nella storia: Savonarola, Torquemada, Robespierre. Probabilmente tra qualche anno nessuno parlerà più di giacobinismo: si parlerà di dipietrismo, un’etichetta che verrà appiccicata, con grande scorno loro, anche a quei raffinati giacobini di Micromega.
Naturalmente come tutte le definizioni importanti anche il dipietrismo divide: c’è chi lo rivendica orgoglioso per sé («Io sono un dipietrista, la mattina non ho problemi a guardarmi allo specchio») e chi lo utilizza come un insulto prêt à porter: «dipietrista del c.» all’arbitro che ti dà un rigore contro, all’ausiliario della sosta che ti ha messo la multa sotto il tergicristallo, o più semplicemente all’automobilista che ti ha sorpassato. Un po’ come «fascista» negli anni Settanta, che era buono per definire ogni tipo umano di mascalzone o più semplicemente di screanzato.
In questa ultima deriva c’è un po’ la conferma di quella eterna legge della storia che si chiama eterogenesi dei fini. Il nome che doveva imporsi come marchio di onestà, di purezza, di pulizia e di probità, almeno per una metà abbondante degli italiani è diventato un insulto. Ma in fondo tutta la vita di Antonio Di Pietro sembra scandita dall’eterogenesi dei fini: uomo di estrema destra, ha finito con il trovarsi all’estrema sinistra; pm fustigatore dei politici, ha finito con il fare il politico.
Lui comunque, a differenza nostra che siamo e resteremo dei signori nessuno, finirà nelle enciclopedie. Sulle quali, tra un paio di secoli, alla voce «Di Pietro Antonio» si leggerà: «Fondatore del dipietrismo, movimento di opinione nato in Italia sulla fine del secondo millennio e avente come scopo la rigenerazione morale del Paese. Inizialmente appoggiato dalla grande maggioranza degli italiani, ispirò la vittoria della corrente di tale Paolo Ferrero a un congresso dei reduci del comunismo».