Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di ieri un editoriale fulminante quanto illuminante, a partire dalla citazione iniziale di Luigi Einaudi: «Del valore dei laureati unico giudice è il cliente; questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare a meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi». (La libertà della scuola, 1953). Einaudi proponeva di abolire il valore legale dei titoli di studio: argomento sacrosanto, che una cultura politica davvero liberale dovrà un giorno riprendere. Da lì si dovrebbe partire per una riforma davvero radicale dell’università italiana.
Ma occorre riflettere anche su un altro punto fondamentale: si può fare meglio in un contesto culturale e politico che negli anni ci ha condotto all’attuale situazione? Cioè quella di un’università dove i concorsi, che dovrebbero selezionare i migliori, paradossalmente costituiscono l’origine marcia, la madre di tutte le corruzioni degli atenei italiani. Concorsi di cui si conoscono a priori i vincitori, parente/amico/protetto/oggetto di scambio di un barone o di un gruppo di baroni.
Quanto ai baroni, la legge Gelmini taglia vieppiù le loro unghie prevedendo che nei consigli di amministrazione possano sedere anche dei non accademici. Sembra un principio elementare, e non si capisce perché se ne debba discutere, come se fosse scontato che un docente di letteratura italiana o di fisica debba per forza essere anche un buon amministratore. Peccato, anzi, che la legge non impedisca che il rettore possa presiedere sia l’ateneo sia il suo cda.
L’università deve essere amministrata anche con criteri di gestione manageriale, se vuole funzionare. È dunque giusto che i fondi pubblici di cui potrà disporre ogni ateneo siano in relazione ai risultati ottenuti. Si tratta di un principio basilare del liberalismo, della competitività, della gestione d’impresa, delle speranze di vittoria: vale per gli studenti nell’ottenimento delle borse di studio come nelle aziende bene amministrate, perché non dovrebbe valere altrettanto per l’istituzione che - più di ogni altra - deve essere formativa?
C’è chi sostiene, polemicamente e strumentalmente, che i fondi sono stati ridotti. Gli osservatori più equilibrati riconoscono che i fondi - nonostante la crisi generale - sono rimasti al livello del 2007-08.
C’è poi chi confonde il precariato con il merito. La riforma introduce la figura di docenti giovani in prova per sei anni, che verranno confermati in base a «risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca».
Che c’entra con il precariato? Se hai ottenuto buoni risultati verrai confermato e presumibilmente promosso, se non li hai ottenuti verrai giustamente invitato a cercare un altro lavoro. A questo proposito è davvero stravagante l’emendamento proposto dall’Udc, che vorrebbe abrogare il Comitato dei garanti per la ricerca, introdotto su proposta del Gruppo 2003, ovvero i trenta ricercatori italiani i cui lavori hanno ottenuto il maggior numero di citazioni nelle pubblicazioni scientifiche di tutto il mondo. Occorre informare d'urgenza l’Udc che la ricerca è alla base della vita stessa di un’università che non sia soltanto un laurificio. E che la riforma Gelmini - per quanto migliorabile - va proprio in quella direzione.
[01 dicembre 2010]