Per un'agenda di rigore e sviluppo

Articolo apparso su Il Sole 24 ore del 10 gennaio 2011

Che la crisi finanziaria sia finita, che le possibili aggressioni speculative contro i debiti sovrani siano un pericolo cessato, non lo ha sostenuto nessuno, e se lo avesse fatto sarebbe stato smentito. Rispetto ai due anni recessivi, però, viviamo una fase di ripresa mondiale, anche se in Italia è ancora troppo contenuta e lenta, per ragioni storiche, che nulla hanno a che fare con la crisi. Questo è il nostro problema: adottare politiche pubbliche, non necessariamente di spesa, intraprendere cambiamenti strutturali, varare riforme istituzionali che consentano di accelerare il passo e guardare con serena fiducia alle sfide del presente e del futuro.

Il 2011 sarà un anno decisivo per l’economia. E la direzione in cui essa andrà dipenderà in modo cruciale dalla politica. Sono un convinto liberista e so che non sono i governi che possono determinare da soli la crescita economica. Ma vi sono fasi della storia in cui i mercati aspettano segnali dalla politica e l’anno che si apre non permetterà alla politica di seguire il detto inglese wait and see. Questo vale sul piano globale, sul piano europeo e sul piano nazionale.

L’agenda internazionale

La presidenza francese ha posto al centro dell’agenda del G20 per il 2011 la riforma del sistema monetario internazionale. Un tema cruciale per almeno tre necessità: a) stabilizzare la volatilità dei cambi e superare il pericolo di una guerra valutaria a fini protezionistici che danneggerebbe il commercio internazionale; b) offrire ai paesi con forti riserve valutarie la possibilità di finanziare con minori rischi di cambio i paesi con ampi debiti pubblici, come chiedono i cinesi; c) determinare in tal modo le condizioni per la convergenza delle politiche macroeconomiche tra Stati Uniti, Europa e Cina in sostegno della crescita. Queste politiche oggi divergono fortemente, con una Europa concentrata sul consolidamento fiscale a difesa dell’euro e gli Stati Uniti impegnati a sostenere la crescita con mezzi monetari, cioè iniettando liquidità nei mercati. Ciò determina pericoli di inflazione e rende indispensabile un accordo globale per la crescita. Solo una maggiore crescita può permettere di riassorbire la liquidità in eccesso senza inflazione, ridurre i debiti senza recessione, e ridurre gli squilibri globali. La globalizzazione non è opera di malvagi, siano banchieri o speculatori finanziari, ma una realtà che richiede una capacità dei governi di coordinare le politiche con una visione strategica. Non sono i mercati globalizzati a produrre i mostri, essi non appaiono dal nulla come nei video giochi, ma sono in gran parte i prodotti delle cattive politiche e delle cattive regolamentazioni, sono cioè figli dei governi.

L’agenda europea

All’agenda internazionale è collegata l’agenda europea che mette al primo posto una modifica della governance economica dell’Europa per conseguire i tre obiettivi principali oggi in discussione. Il primo è quello del consolidamento fiscale e cioè come assicurare la convergenza rapida di tutti paesi europei verso una politica di bilancio che consenta la sostenibilità di lungo periodo dei debiti pubblici e l’equilibrio macroeconomico. Il secondo è quello di stabilire un meccanismo di garanzia per i debiti accumulati nel corso della crisi in modo da assicurarne il finanziamento al riparo dalla volatilità dei mercati finanziari. L’emissione di Eurobond, per finanziare sia i debiti sovrani europei sia le grandi opere infrastrutturali, rientra in questa prospettiva. Il terzo obiettivo, che è condizionato dal perseguimento dei primi due, è quello di attuare politiche di sostegno alla crescita non basate sulla spesa in deficit, ma evitando politiche fortemente deflattive e con gli spazi necessari ad attuare le riforme necessarie ad aumentare la competitività. Se il raggiungimento di questo terzo obiettivo si basa sulla capacità di perseguire i primi due, è anche vero che i primi due richiedono un impegno credibile sull’obiettivo crescita. Ogni punto in meno di crescita rende necessario, infatti, aumentare l’avanzo primario per stabilizzare i debiti, fino a rendere questo sforzo di stabilizzazione non più credibile.
Non è un caso che i mercati finanziari oggi giudicano il rischio di solvibilità dei debiti sovrani, da cui dipende il premio al rischio richiesto per il loro finanziamento, non solo dai saldi correnti di bilancio ma dal tasso di crescita prevedibile in base alla competitività dei rispettivi paesi. Il circuito virtuoso descritto è l’unico possibile affinché non salti l’unione monetaria, evento che sarebbe drammatico sia per i paesi europei economicamente più fragili sia per quelli considerati più forti. L’euro non è difendibile annunciando il pericolo del baratro finanziario ma operando per riavviare la competitività delle economie europee. Se quelli descritti sono i problemi da affrontare, i tempi a disposizione per agire sono stretti e il rigido calendario del “semestre europeo” rispecchia questa consapevolezza.

L’agenda nazionale

Il semestre europeo chiarisce la correlazione tra convergenza delle politiche di bilancio e convergenza delle riforme a sostegno della crescita proprio prevedendo la contestuale presentazione in aprile dei due documenti che le contengono. L’Italia ha quindi di fronte quattro mesi cruciali per definire le politiche relative ai due processi di convergenza e questa è l’occasione per definire in questo orizzonte temporale, un piano condiviso di politica economica che si ispiri ai concetti di rigore e sviluppo.
Ma quali sono le condizioni nelle quali questo piano nazionale deve essere sviluppato? La Decisione di finanza pubblica 2011-2013, approvata dal parlamento, delinea un quadro già compatibile con gli obiettivi europei e che quindi non richiede modifiche sostanziali per la formulazione del Piano di stabilità e convergenza. Essa prevede che a legislazione vigente, e quindi in assenza di manovre aggiuntive di bilancio, il rapporto deficit/pil, che è già oggi tra i più bassi dell’Europa, si attesti entro il 2013 stabilmente sotto il 3% e che l’avanzo primario raggiunga il 2,6% del Pil. Questo livello dell’avanzo primario assicura, secondo i calcoli europei, la stabilizzazione del rapporto debito/pil e la sua progressiva riduzione e ciò significa che, secondo le regole attuali, non sono necessarie azioni aggiuntive rispetto a quelle adottate.

È in discussione, tuttavia, una nuova regola europea diretta ad accelerare il processo di riduzione del debito. Essa prevede un obiettivo annuale di riduzione del rapporto debito/pil pari al 5% del divario di questo rapporto dal valore di riferimento del 60 per cento. Se questa regola, che prevede fattori di correzione come il tasso di crescita della ricchezza nazionale e il livello di indebitamento del settore privato, fosse approvata entro l’estate, il rapporto debito/pil italiano dovrebbe ridursi a partire dal 2015 del 2,7 per cento l’anno e ciò implicherebbe la necessità di ottenere un avanzo primario di bilancio non di molto superiore a quello già previsto. Il vero nodo per la credibilità di questa previsione di stabilità e convergenza della finanza pubblica italiana è che essa si basa sull’ipotesi che si raggiunga un tasso di crescita stabilmente superiore al 2% fin dal 2012. Se ciò non fosse sarebbero necessarie ulteriori manovre che ci avviterebbero in una spirale di tagli di bilancio e recessione al cui termine c’è solo il default. Ma non vi è alcun motivo perché ciò avvenga. Vi sono oggi le condizioni internazionali e di finanza pubblica nazionale perché la politica elimini gli ostacoli alla crescita. Questi ostacoli sono noti e sono anche indicati sia nella strategia Europa 2020 sia nella versione preliminare del Programma nazionale di riforma approvato dal Consiglio dei ministri del 5 novembre 2010.

È necessario accelerare l’attuazione delle riforme strutturali, che non incidono sul bilancio ma che possono aprire e liberalizzare i mercati, far aumentare la produttività e la competitività complessiva del sistema. I 5 punti del programma sui quali il governo ha ottenuto la fiducia del Parlamento a fine settembre devono essere attuati: fisco, federalismo fiscale, giustizia, piano per il sud, sicurezza e immigrazione. È realizzabile in tempi brevi il programma già previsto di interventi per la modernizzazione del paese: semplificazioni legislativa e delle procedure burocratiche, liberalizzazioni, a partire da quella dei servizi di pubblica utilità, la riforma diretta ad aumentare l’efficienza e a ridurre i costi della Pubblica amministrazione anche attraverso la sua digitalizzazione. Tutto ciò non richiede spesa aggiuntiva ma crea le condizioni per la riduzione strutturale della spesa. È possibile anche attuare gli investimenti infrastrutturali programmati, il piano casa, l’accelerazione dei pagamenti della pubblica amministrazione, promuovere l’estensione della banda larga.

Le riforme e la fiducia

Un gettito aggiuntivo destinato a queste finalità può venire non solo dalla lotta all’evasione fiscale ma anche dalla dismissione di parti del patrimonio pubblico e dalla stessa riforma fiscale. La riforma fiscale non implica di per sé una riduzione complessiva del gettito fiscale. Il primo obiettivo è quello di eliminare le storture esistenti, che concentrano il prelievo sui redditi, in modo da premiare la produzione di reddito e quindi preparare le condizioni perché anche la pressione fiscale complessiva si possa ridurre. Dalle persone alle cose si usa dire. Sui principi che debbono guidare la riforma i ministri di questo governo concordano da oltre un decennio, ma consumatori e imprese attendono un segnale che incida positivamente sulle loro aspettative.
Il numero degli interventi è, quindi, ampio ed è già individuato, ma è necessario eliminare gli ostacoli politici alla loro realizzazione. La fiducia di consumatori e imprese, che è in aumento ma che va rafforzata perché la crescita si consolidi, richiede che i messaggi inviati al paese dal governo non siano del tipo “oggi non si può fare”. Al contrario oggi si deve agire. Forse sarebbe utile immaginare anche un indicatore di fiducia dei governi, che registri la fiducia nei propri programmi, nelle cose attuate e nei risultati delle politiche avviate. La cosa peggiore è aver paura delle stesse riforme fatte, da quella dell’Università a quella della Pubblica amministrazione, e frenarle non avendo fiducia nei risultati positivi per il cui conseguimento sono state disegnate e approvate. L’approvazione dello stesso federalismo fiscale sembra frenato dalla paura, quasi che sia caduta la fiducia nei suoi effetti positivi.

Credo che la principale responsabilità di un Governo, soprattutto di fronte a una così grave crisi economica sia quella di non speculare e di non lasciare che si speculi sulla paura. Dopo il voto di fiducia del 14 dicembre e l’inconsistenza politica dimostrata dalle opposizioni unite solo nel tentativo di distruggere, ma prive di qualsiasi credibile strategia alternativa per affrontare i bisogni del paese, la tentazione avrebbe potuto essere quella di un ricorso alle urne. Sarebbe stato un modo per lucrare sulla paura. Invece, si è scelta la strada della responsabilità nel segno della stabilità.

La guerra alla crisi è stata condotta sinora con politiche di “guerra”. Adesso è giunto il momento di accompagnare la vigilanza bellica con misure che ci aiutino a mettere al sicuro i risultati raggiunti.
Per questo le riforme strutturali sono una necessità che dà senso al rigore, non un vezzo ornamentale. A cominciare dalle riforme istituzionali. Perché una democrazia sfilacciata e instabile è incapace della tempestività che crisi come questa richiedono. La strada del federalismo è una strada obbligata, ma in un paese come l’Italia il federalismo non può reggere l’impatto di una tensione disgregatrice, se contemporaneamente non viene equilibrato con il rafforzamento degli elementi unitari, a cominciare da un sistema presidenziale che i nostri più lungimiranti costituenti già auspicavano nel 1948.*

[13 gennaio 2011]