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Alitalia: le colpe e i meriti

La scadenza dell'ultimatum ha chiarito due cose. La prima è ovviamente la sorte della nostra compagnia aerea; la seconda chi ha lavorato per il bene, o per il male, del sistema Paese.

Lo sforzo del governo

foto: AlitaliaChi ieri ha avuto modo di leggere le 10 cartelle consegnate dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi alle nove sigle sindacali, contenenti sia il piano Colaninno sia l'assieme di garanzie sociali predisposte dal governo per i 3.200 circa lavoratori in esubero, non vi ha scorto tracce né di "macelleria sociale" né di "compagnia di bandierina": sono gli slogan usati negli ultimi giorni dal Pd di Walter Veltroni. Ha visto invece lo sforzo serio di tentare una sorta di miracolo: trasformare in una realtà moderna e concorrenziale un'azienda gestita per decenni secondo le logiche del peggior consociativismo sindacale, dove efficienza e servizio al cittadino e al Paese erano diventati un optional, un'azienda prodiga al contrario di privilegi per alcune categorie di dipendenti.

Sotto questo profilo, due sono stati i passaggi-chiave dell' "ultima chiamata" di Colaninno: l'offerta ai sindacati di condividere gli utili netti della nuova Alitalia, secondo una divisione meritocratica; e l'affermazione "per noi i piloti sono dipendenti, non un'associazione".

Fin qui la prima cosa. La seconda è non meno importante. Chi ha lavorato per il bene del Paese, e chi ha remato contro per un miope tornaconto politico sindacale?

Chi ha lavorato per il bene del Paese?

foto: Silvio BerlusconiIl primo (e per molto tempo forse l'unico) a credere nella possibilità di una cordata di imprenditori privati italiani per il rilancio della compagnia, è stato Silvio Berlusconi.

La sinistra politico-sindacale, nonché molti paludati commentatori, hanno sostenuto fino a poco tempo fa che la cordata era un bluff, al massimo un pugno di speculatori amici del Cavaliere. Bene, si è visto che questo gruppo di industriali era una cosa ben diversa, guidato addirittura da un imprenditore che quanto a simpatie politiche con Berlusconi ha poco da spartire; e al suo fianco Banca Intesa, il principale gruppo italiano.

Il piano industriale era solido, concreto, realistico. A quanto raccontano le cronache di tutto questo si sono resi conto, un po' in extremis, anche esponenti del Pd come Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani. Viste le carte, hanno capito che non era proprio il caso di ostinarsi nella guerra politica al governo contro la nuova Alitalia, ma andava anzi convinto Guglielmo Epifani a garantire il proprio appoggio.

Nulla di tutto ciò da parte dello stato maggiore Ds, Veltroni su tutti. Ancora cinque giorni fa, sabato scorso, Veltroni invitava a chiudere la porta a Colaninno e mettersi a cercare altri alleati e altre soluzioni, a suo avviso tutte disponibili.
Evidentemente il segretario diessino, poco allenato alle cose concrete e all'economia in particolare, ignorava (e ignora) che nel frattempo l'Alitalia era tecnicamente fallita, e che i big europei potevano essere al massimo interessati, in futuro, alle sue spoglie. La situazione, più o meno, degli ultimi giorni del governo Prodi.

I sindacati decidono per il no

Gli effetti pratici immediati non mancano, perché l'Alitalia, salvo miracoli, sparirà. Ma gli italiani continueranno a volare e a muoversi, con altre compagnie, come hanno fatto in situazioni analoghe gli svizzeri, gli spagnoli, i belgi, gli svedesi, gli americani. Il mercato aereo italiano è il quarto del mondo, Malpensa – già adesso con Alitalia ridotta ai minimi termini grazie al piano del precedente management benedetto da Romano Prodi – se la sta cavando meglio di prima. I grandi vettori europei rimpiazzeranno rapidamente la vecchia compagnia.

I risvolti politici

E qui è bene essere chiari fin da ora.

Berlusconi ha fatto fin troppo, con lui il governo che ha messo a disposizione ammortizzatori sociali come non si erano mai visti. Non dimentichiamo la famosa frase di Padoa Schioppa: "Alitalia è su un'ambulanza e io sto correndo al primo pronto soccorso disponibile".
Quella era la soluzione proposta dalla sinistra. Il premier ha dimostrato che un'alternativa serie, concreta, italiana, privata, era invece possibile. In un'impresa della quale poteva disinteressarsi, la classica rogna risolta da altri.

Chi ha fatto fallire l'operazione?

I sindacati in primo luogo, e tra loro su tutti quelli dei piloti. Subito dopo la Cgil, il cui leader Epifani non è neppure andato a palazzo Chigi ad ascoltare la parole gravi di Colaninno e Gianni Letta.

La responsabilità, l'opposizione. Il Pd ha capito troppo tardi, e male, che questa non era una partita politica, ma una sfida imprenditoriale ed economica da condividere. Ha attaccato Berlusconi come fosse una sua faccenda personale, ha calcato sui conflitti d'interesse, ne ha dette di tutte. Salvo frenare in extremis. Dunque qualunque cosa affermino ora Veltroni e dintorni non è credibile.

A parte ogni altra considerazione, ricordiamo chi e come disse no all'Air France: il sindacato, Cgil e piloti in testa. Gli stessi che dieci anni fa avevano sabotato l'alleanza con la Klm, e che in questo caso chiudono la porta in faccia a Colaninno. Per la terza volta il destino ultimo dell'Alitalia è stato nelle mani di un pugno di sindacalisti, per la terza volta hanno scelto il peggio.

I risvolti sindacali

Infine non sottovalutiamo la spaccatura che si aprire nel fronte sindacale a livello di confederazioni. Un'altra trattativa molto più ampia sta per partire, sulla riforma dei contratti di lavoro con la Confindustria. La ferita tra Cisl, Uil e Ugl da una parte, e Cgil dall'altra non si rimarginerà. Come ai tempi del "patto per l'Italia" nel 2002 la Cgil si trova a correre da sola, non andando da nessuna parte, isolata nel Paese e nel mondo del lavoro; e stavolta con alle spalle un partito infinitamente più debole di allora.

[18 settembre 2008]

 
 
 

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