I tanti mali della giustizia consentono agli assassini di tornare liberi
La scandalosa vicenda che sta portando alla scarcerazione degli imputati della faida del Gargano, tra i quali uno accusato di tredici omicidi, non può essere liquidato come l’ennesimo caso di cattivo funzionamento della giustizia. Non è neppure e soltanto un caso-limite. È piuttosto un caso esemplare e paradigmatico nel quale confluiscono tutte quelle distorsioni del sistema giudiziario italiano alle quali il governo sta tentando di porre rimedio con provvedimenti sacrosanti, ai quali si oppone una magistratura corporativa e politicizzata.
La scarcerazione per decorrenza di termini di (presunti) killer e mafiosi è infatti l’effetto combinato di una concomitanza di cause che sono la summa dei mali di questa giustizia: eccesso di intercettazioni, intasamento dei processi, lentezza del sistema giudiziario, burocrazia esasperata, mancanza di senso di responsabilità dei Pm.
Gli attuali imputati furono arrestati quattro anni fa, per una lunga striscia di sangue che ha portato a oltre trenta omicidi. Il processo è iniziato nel 2005 e in tre anni non è stato possibile chiudere il primo grado di giudizio in Corte d’Assise. Perché?
Le intercettazioni
Sono decine di migliaia, gli otto periti incaricati di trascriverle (con quali costi?) non sono stati in grado di finire il lavoro.
Il Pm
Il difensore del principale imputato racconta:”L’accusa ha deciso di non raccogliere l’invito del presidente a selezionare le intercettazioni rilevanti, facendole trascrivere tutte”. Possibile che il Pm non si sia reso conto che, così facendo, avrebbe aperto la porta del carcere agli imputati per decorrenza dei termini di custodia cautelare?
La lentezza
Il difensore del boss dice che i giudici hanno impresso “un ritmo serrato al processo”. Il fatto stesso che si consideri pacificamente un “ritmo serrato” la cadenza di una udienza a settimana e che due udienze rappresentino un record la dice lunga sulla capacità di lavoro di certa nostra magistratura.
La difesa
Il legale del principale imputato confessa candidamente che non ha dovuto neppure fare ostruzionismo, sapendo che di questo passo gli imputati sarebbero tornati in libertà. Dispensa anzi consigli al Pm: “S’è voluto istruire un processo troppo complesso, forse alcuni reati potevano essere discussi separatamente, forse qualche omicidio poteva essere separato…”.
La magistratura che si accapiglia sui processi a Berlusconi (gli unici che in questo Paese marciano “a ritmo serrato”) farebbe bene a meditare qualche volta sulle proprie responsabilità, a guardare con occhio meno corporativo e ideologizzato ai provvedimenti del governo che mirano ad alleggerire l’arretrato giudiziario, a non allargare ulteriormente la distanza che la separa dal Paese reale. Dove i cittadini, in recenti sondaggi sulla fiducia nelle istituzioni, pongono al primo posto i carabinieri (che arrestano gli assassini) e in coda i giudici (che troppo spesso li mandano in libertà). Un esame di coscienza non farebbe male.
[25 giugno 2008]
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