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Libro Bianco sul futuro del modello sociale

La vita buona nella società attiva

Maggio 2009

Omnium rerum mensura homo

Indice

foto: libro biancoPresentazione del ministro Maurizio Sacconi

1. Lo scenario attuale e le grandi tendenze.

2. I limiti e le potenzialità del modello sociale italiano.

3. I valori: persona, famiglia, comunità.

4. La visione: il nuovo modello delle opportunità e delle responsabilità.

5. Meriti e bisogni.

6. La sostenibilità del modello sociale.

7. Conclusioni.

Il Libro Bianco (formato .pdf 597 Kb)

Presentazioni

La composizione in un unico Ministero delle funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro, salute e inclusione sociale ha rappresentato una opportunità irripetibile per ricondurre a una visione integrata l’insieme di prestazioni e servizi – pubblici e privati – che devono concorrere alla vita buona dei cittadini nel contesto necessario di una società attiva.

È una strada già tracciata in ambito europeo. Il Libro Bianco della Commissione Europea sulla salute ha ampiamente evidenziato lo stretto legame tra salute e prosperità economica [Un impegno comune per la salute: approccio strategico dell’UE per il 2008-2013, COM(2007), 630 def.]. Mentre è nella Strategia di Lisbona che rinveniamo l’idea della società attiva che risulta funzionale a obiettivi tanto di competitività quanto di inclusione sociale.

Promuovere la salute consente di ridurre la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale e anche di incrementare la produttività del lavoro, i tassi di occupazione, la crescita complessiva della economia. Allo stesso modo, un aumento della qualità del lavoro e delle occasioni di impiego per un arco di vita più lungo, così come un contesto favorevole alla occupabilità e alla mobilità sociale, qualunque sia il punto di partenza di ciascuno, si traducono in maggiore salute e benessere psico-fisico.

Nel coordinare il gruppo di lavoro che ha concorso alla redazione di questo Libro Bianco mi sono avvalso dei consistenti materiali prodotti dalla consultazione avviata lo scorso anno, con la pubblicazione del Libro Verde sul futuro del modello sociale, secondo una prassi ricorrente nella Unione ma nuova in Italia. Ad essa hanno preso parte oltre mille soggetti tra istituzioni, organizzazioni rappresentative di interessi e di valori, singoli cittadini che qui intendo ringraziare. Il testo prodotto è largamente debitore del loro prezioso contributo.

Come già il Libro Verde, anche il Libro Bianco è dedicato ai giovani e alle loro famiglie. La dedica vuole essere sostanziale, non formale, perché un rinnovato modello sociale orientato a promuovere l’autosufficienza di ciascuna persona, di tutte le persone, è essenziale per ricostruire la fiducia nel futuro.

Il primo valore che ci deve guidare in questa sfida è la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali: la famiglia, quale luogo delle relazioni affettive; il lavoro, quale espressione di un progetto di vita; la comunità e il territorio, quali ambiti di relazioni solidali.

Da questo valore discende la tesi di un Welfare delle opportunità e delle responsabilità, che si rivolge alla persona nella sua integralità, destinato progressivamente a sostituire il modello attuale di tipo prevalentemente risarcitorio. Un Welfare che interviene in anticipo, con una offerta personalizzata e differenziata, rispetto al formarsi del bisogno e che sa stimolare comportamenti e stili di vita responsabili e, per questo, utili a sé e agli altri.

Un modello sociale così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche, ma anche riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, della impresa profittevole e non, come di tutti i corpi intermedi che concorrono a fare comunità.

Esso potrà offrire migliori prospettive soprattutto ai giovani e alle donne, oggi penalizzati da una società bloccata e incapace di valorizzare tutto il proprio capitale umano. Così come sarà maggiormente idoneo a intervenire su situazioni di solitudine ed emarginazione, con particolare attenzione alle persone più anziane e ai diversamente abili.

Il principio di una vita buona ha le sue radici in una vita attiva, nella quale il lavoro, valorizzato in tutte le sue forme ed espressioni, non sia una maledizione o, peggio, una attesa delusa, ma costituisca fin da subito nel ciclo di vita, la base della autonomia sociale delle persone e delle famiglie. Nella società della vita buona la dimensione personale e la dimensione sociale sono simultaneamente perseguite in modo da non trascurare i diversi aspetti costitutivi della esperienza elementare dell’uomo: la salute, il lavoro, gli affetti e il riposo.

Questa visione vuole essere la risposta a ogni forma di egoismo corporativo e alle ricorrenti propensioni a favorire il declino della società da parte di coloro che – viziati da culture nichiliste – sembrano avere smarrito il senso stesso della vita. Il destino di un popolo è positivamente perseguito solo se nei più prevale l’idea vitale della ricerca della felicità e la coscienza che il desiderio di realizzazione di ciascuno si compie nella dimensione comunitaria.

L’attenzione ai meriti e ai bisogni delle persone potrà consentire di meglio coniugare le esigenze della sostenibilità con quelle della equità. Rinnovate politiche per lo sviluppo sociale non sono rivolte al solo obiettivo di una più equa distribuzione della ricchezza, ma risultano funzionali esse stesse a una maggiore capacità di crescita della nostra economia perché riducono il bisogno, alimentano la qualità del capitale umano, stimolano la mobilità sociale, determinano nuovi lavori.

Il territorio è la dimensione idonea per l’attuazione delle politiche coerenti con questo Libro Bianco perché è in questo ambito che le istituzioni, le organizzazioni non profittevoli, le associazioni rappresentative dei lavoratori e degli imprenditori prossime alle persone possono integrarsi in modo efficiente e costruiscono soluzioni efficaci ai fini tanto dello sviluppo locale quanto della giustizia sociale.

La spesa sociale si dovrà confrontare con la ricchezza disponibile anche in relazione ai vincoli indotti dalle esigenze di stabilità della Unione e ai problemi connessi al collocamento del grande debito pubblico accumulato. La costruzione del nuovo modello dovrà pertanto proporsi la ricerca di percorsi virtuosi di protezione sociale idonei a garantirne, in termini di crescita e sviluppo, la piena sostenibilità.

Ciò appare tanto più necessario in un Paese come il nostro, profondamente diviso tra Nord e Sud nei livelli di quantità e qualità delle prestazioni sociali come nei tassi di attività della sua popolazione.

Siamo ben consapevoli che il processo di rinnovamento del sistema sociale italiano non potrà essere né breve né lineare. La stessa crisi internazionale in atto impone il rinvio di molti dei cambiamenti qui ipotizzati e, in taluni casi, soluzioni incongruenti con essi.

Anche per questa ragione il Libro Bianco si limita intenzionalmente alla declinazione dei valori e della visione del nuovo modello sociale con l’auspicio di offrire obiettivi largamente condivisi rispetto ai quali si dovrà esercitare la legittima dialettica tra i diversi soggetti istituzionali, politici e sociali circa i tempi e i modi del percorso di riforma.

Il programma di legislatura per la transizione dal vecchio al nuovo modello sarà successivo, e inevitabilmente espressione del Governo e della sua maggioranza parlamentare, ancorché aperto al dialogo sociale e al confronto costruttivo con l’opposizione.

Al rinnovamento interno deve peraltro corrispondere un convinto impegno nella dimensione internazionale. Il processo di liberalizzazione degli scambi commerciali deve essere accompagnato dal riconoscimento universale di alcuni diritti fondamentali della persona in modo che sviluppo economico e dimensione sociale procedano ovunque di pari passo.

La stessa ricostruzione delle condizioni di stabilità della economia globale non può non considerare l’evoluzione degli indicatori della sostenibilità sociale ai fini della ricostruzione del circolo della fiducia. Ovunque nel mondo si afferma ora la convinzione per cui una regolata economia di mercato si deve integrare con la migliore attenzione ai criteri della coesione sociale.

Si affermano diffusamente i criteri della economia sociale di mercato, quale sola prospettiva che consente di far coesistere, all’interno del medesimo sistema, efficienza e giustizia sociale.

Per questa ragione, i Ministri del Welfare dei quattordici Paesi industrializzati e delle economie emergenti, riuniti a Roma dalla Presidenza italiana della sessione G8 nel primo Social Summit dopo la tempesta finanziaria, hanno all’unisono affermato: People first!

Le persone prima di tutto, nei provvedimenti anticrisi e nella costruzione del nuovo Welfare. Le persone fine ultimo di ogni azione politica e valore fondamentale nella società che verrà dopo la crisi.

Maurizio Sacconi

1. Lo scenario attuale e le grandi tendenze
Il contesto della grande crisi.

Da oltre un anno viviamo una autentica “tempesta perfetta”. La peggiore crisi finanziaria dell’ultimo mezzo secolo ha prodotto una profonda crisi della economia reale.

Il gioco delle aspettative negative ha paralizzato il mondo. La società si sta ripiegando su se stessa. Si affaccia il rischio di una de–globalizzazione, rivisitazione dell’isolazionismo e del protezionismo del secolo scorso.

La crisi è dovuta alla esplosione di una bolla finanziaria, fondata su un capitalismo che ha privilegiato le pratiche a breve termine e di indebitamento. L’estrema autoreferenzialità del management non ha trovato argine negli organi di controllo.

Una eccessiva esposizione all’indebitamento, favorito da un regime espansivo di politica monetaria, ha portato a investimenti e consumi non del tutto razionali con ripercussioni negative sullo stato patrimoniale e finanziario delle famiglie.

La crisi è divenuta mondiale per l’interconnessione tra le economie nazionali.

La globalizzazione ha accresciuto la ricchezza delle economie e delle società, ampliando le possibilità di commercio mondiale, aumentando i mercati di esportazione, moltiplicando le opportunità di investimento finanziario, ma ha anche dimostrato una estrema vulnerabilità al presentarsi di shock negativi.

L’estrema volatilità dei mercati genera insicurezze nelle persone e produce effetti evidenti sui sistemi di Welfare in termini di vincoli di finanza pubblica, precarietà delle imprese e della occupazione, domanda sociale, affidabilità degli investimenti disponibili per il risparmio privato, instabilità degli erogatori delle prestazioni e molto altro ancora.

La crisi economica ha messo in discussione il processo di globalizzazione. Ma è difficile immaginare che i flussi di beni, capitali, persone e informazioni che si sviluppano tra Paesi e Regioni si arrestino e si ritorni a un mondo di frontiere e di barriere commerciali.

Quando il mondo tornerà a crescere sarà necessario disporre di strumenti che possano valorizzare le opportunità e contenere i rischi. Maggiori saranno le pressioni su occupazione e salari derivanti dalla ulteriore integrazione nella economia mondiale dei Paesi un tempo periferici. Altrettanto importanti saranno le spinte per una continua rilocalizzazione dei processi produttivi.

Il rinnovamento delle istituzioni internazionali dedicate alla regolazione del commercio e alla stabilità dei mercati finanziari dovrà assicurare una ben maggiore considerazione della sostenibilità sociale quale necessaria componente dello sviluppo economico.

I cambiamenti demografici.

La demografia è il fattore di cambiamento più importante dei prossimi decenni.

Saranno gli andamenti della natalità, il mutare della aspettativa di vita e i flussi migratori a determinare nuovi equilibri politici ed economici e a riorientare le caratteristiche del Welfare del futuro.

I già precari equilibri del sistema previdenziale e della assicurazione sanitaria obbligatoria saranno sempre più messi in discussione dall’invecchiamento della popolazione e dalla conseguente rivoluzione epidemiologica in ambito sanitario.

Diventeranno prioritarie le malattie cardiovascolari (prima causa di morte), i tumori (prima causa di anni di vita attiva persi), le patologie dell’invecchiamento e della infanzia, il diabete e le malattie metaboliche, gli incidenti e le violenze.

Emergeranno fattori di rischio nuovi come pandemie, bioterrorismo, incidenti fisici e biologici.

L’aumento della popolazione e gli squilibri territoriali produrranno anche nei prossimi anni un aumento della pressione migratoria e un progressivo inurbamento.

Il calo delle nascite resterà un problema centrale, in Italia più che altrove. Una popolazione che invecchia tende a privilegiare la rendita e la sicurezza e vuol dire meno lavoro, meno consumi e meno investimenti. La questione demografica non può essere affrontata solo sul piano dei numeri, confidando unicamente nel contributo dei flussi migratori.

La crescita demografica dei prossimi anni a livello globale si scaricherà inevitabilmente sulle città, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nelle economie industrializzate. Registreremo una maggiore esposizione al disagio sociale e una maggiore complessità delle politiche per rimuoverlo e alleviarlo.

La concentrazione urbana è un fenomeno positivo per la crescita economica, lo sviluppo delle infrastrutture e il benessere delle persone, ma pone problemi rilevanti al sistema di Welfare. La vita nei grandi agglomerati segue necessariamente ritmi più impersonali, e può generare solitudine, privando molti delle reti di protezione informale a partire dalla famiglia.

Ricerca, ambiente, energia.

Le nuove tecnologie hanno migliorato la qualità della vita. Ancora non pienamente valutabili sono i progressi nei prossimi decenni nel campo della tecnologia della informazione e comunicazione, delle biotecnologie, della genomica, della ricerca biomedica, dei nuovi materiali. La diffusione delle tecnologie è favorita dalla crescente globalizzazione e dalla caduta dei loro costi e spinge alla adozione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro.

La novità di questo tipo di cambiamenti, rispetto ai progressi registrati nei secoli scorsi, sta soprattutto nella velocità con cui si producono conseguenze sulla società. Un impatto che determina profonde trasformazioni della vita quotidiana non solo negli aspetti medici e tecnologici, ma anche in quelli delle relazioni sociali e familiari.

La rivoluzione digitale ha un carattere che inevitabilmente segna lo sviluppo delle relazioni umane e interpersonali. La rete Internet non è solo un insieme di interconnessioni tra punti di accesso. È soprattutto una nuova forma di socialità attraverso cui diventa possibile formare nuove relazioni libere dal vincolo territoriale. Non possono tuttavia essere trascurati i comportamenti patologici che si manifestano soprattutto nei più giovani.

Anche la trasformazione dell’ecosistema incide sui sistemi di Welfare. I cambiamenti climatici possono avere pesanti conseguenze per gli equilibri mondiali. In assenza di una azione coordinata a livello internazionale si stima una perdita equivalente del 2 per cento del PIL mondiale.

Il controllo delle emissioni inquinanti è uno dei problemi più importanti legati al cambiamento climatico. Ciò determina l’insorgere di costi per le imprese, che possono essere asimmetrici poiché gli standard non vengono adottati in tutti i Paesi. Ne consegue un incentivo alla delocalizzazione per le imprese esposte alla concorrenza internazionale con possibili effetti sui livelli occupazionali e la qualità del lavoro.

Le politiche ambientali potranno tuttavia creare nuove opportunità per le imprese “verdi”, sia quelle che commercializzano tecnologie esistenti sia quelle che hanno contenuto innovativo e, con esse, maggiori e più qualificate opportunità di lavoro.

Le biotecnologie.

L’innovazione nella ricerca scientifica ha prodotto effetti rilevanti sulla qualità della vita di moltitudini crescenti a partire dall’allungamento delle aspettative di vita.

La biotecnologia è oggi la frontiera più avanzata della rivoluzione tecnologica in campo sanitario. Essa offre nuove opportunità di lavoro e possibilità straordinarie di interazione con altri settori tecnologici e industriali quali le nanotecnologie, la bioinformatica/IT, l’agroalimentare, fino ad aree più lontane quali la chimica, l’elettronica, la microfluidica.

L’applicazione della biotecnologia alla scoperta di nuovi farmaci consente lo sviluppo delle cosiddette terapie mirate, a misura del singolo paziente, di derivazione biologica o chimica.

L’innovazione della terapia dipende principalmente dalla comprensione dei meccanismi biologici che stanno alla base della malattia e dalla identificazione di strutture molecolari, coinvolte in tali meccanismi, che possano rappresentare nuovi bersagli molecolari per nuovi approcci terapeutici. Anche la genomica può potenziare questa direzione, mediante un utilizzo prudente di test genetici predittivi di malattia e di risposta alla terapia.

È la grande promessa della personalizzazione della medicina, che però dovrà confrontarsi con il problema di equità di accesso alle nuove terapie. Occorre evitare che i costi elevati ne consentano la fruizione ai soli gruppi sociali più agiati, creando in tal modo fasce differenziate di pazienti.

Nuovi lavori e nuovi modelli organizzativi d’impresa.

Le grandi tendenze in atto hanno modificato radicalmente i processi produttivi e gli ambienti di lavoro contribuendo alla nascita di nuovi lavori e di nuove professioni. I modelli organizzativi d’impresa hanno conosciuto innovazioni radicali che segnano la definitiva transizione verso una economia della informazione e della conoscenza.

Le tecnologie del calcolo e della comunicazione hanno determinato il superamento di sistemi organizzativi rigidamente verticali dove i lavoratori sono stabilmente chiamati a svolgere mansioni predeterminate per uno stesso datore di lavoro. La rivoluzione digitale ha indotto la possibilità che imprese diverse operino in rete favorendo la specializzazione produttiva, le esternalizzazioni e anche fenomeni di delocalizzazione.

Risulta oggi più efficiente per ciascun operatore concentrarsi sulla propria attività principale e approvvigionarsi, in qualunque parte del mondo, da soggetti terzi dotati di un prezioso know how immateriale ed organizzativo. Ciò non soltanto per i servizi di logistica, il facility management, l’amministrazione, i sistemi informativi, la commercializzazione dei prodotti ma anche per funzioni centrali e altamente specialistiche prossime al cuore del processo produttivo aziendale.

Anche per le piccole e medie imprese la logica di rete e il ricorso al know how organizzativo e gestionale di imprese specializzate risultano sempre più decisivi per sopravvivere nel medio e lungo periodo in un contesto economico e sociale in continua evoluzione. Si sono peraltro formate vere e proprie “multinazionali tascabili” che hanno consentito alle manifatture tradizionali di organizzarsi flessibilmente nella dimensione globale conservando e sviluppando nel territorio di origine le funzioni più intelligenti cui corrispondono professionalità non sempre immediatamente disponibili.

Aumenta l’autonomia del lavoratore nella realizzazione delle proprie mansioni e progressivamente si stemperano i rigidi vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale. Il prototipo del lavoro subordinato standard non è più la fattispecie di riferimento, nella prassi operativa come nella legislazione sul lavoro. Emergono nuove forme e tipologie di lavoro a forte contenuto auto-imprenditoriale. Cresce la domanda di servizi di cura alla persona e la relativa offerta è spesso inadeguata per quantità e qualità esprimendosi ricorrentemente in forme irregolari.

I cambiamenti qui sommariamente descritti hanno un forte impatto non solo sul funzionamento dei sistemi di relazioni industriali ma, prima ancora, sulla composizione della forza lavoro, sulla qualità e sulla durata nel tempo dei rapporti di lavoro, sui rischi e la sicurezza negli ambienti di lavoro.

Sono trasformazioni che continueranno anche dopo la crisi economica in atto.

L’elemento di costo e la qualità del capitale umano sono i fattori di produttività e di competitività che determinano le decisioni di organizzazione e di localizzazione delle imprese. E sono trasformazioni che investiranno anche i settori protetti dalla competizione, come quello dei servizi pubblici.

2. I limiti e le potenzialità del modello sociale italiano
Le disfunzioni del modello tradizionale.

Le disfunzioni, gli sprechi e i costi dell’attuale modello, così come il quadro delle compatibilità macro-economiche, sono noti e ampiamente documentati.

La crisi economico-finanziaria non sta facendo altro che mettere in maggiore evidenza l’inadeguatezza del nostro sistema di sicurezza sociale.

La libertà di scelta e di iniziativa delle persone è spesso compressa dalla invadenza di un attore pubblico che non sempre è in grado di garantire adeguati standard qualitativi dei servizi essenziali. Non di rado lo Stato si sostituisce al cittadino nelle sue decisioni con strutture viziate da ricorrente autoreferenzialità. Ciò diffonde una cultura assistenzialista che comprime il senso di autonomia e responsabilità.

Il risultato peggiore dell’assetto tradizionale è la frattura tra i buoni modelli di un Nord sviluppato e agganciato alle regioni più avanzate d’Europa e le inefficienze sistemiche di un Sud arretrato e carente di opportunità e tutele soprattutto per le persone più deboli, a partire dalle donne, dai giovani e dai disabili.

La spesa sociale è caratterizzata da un netto squilibrio verso la componente pensionistica che, al netto della spesa per l’istruzione, ne costituisce oltre il 60 per cento. Gli altri due ambiti di spesa più rilevanti sono la sanità (24 per cento) e l’assistenza (8,1 per cento).

L’eccessivo peso del capitolo pensionistico penalizza, in particolare, la spesa sanitaria che, in prospettiva, pone problemi di sostenibilità. Nel 2050, in assenza di politiche correttive e di riequilibrio, la spesa sanitaria potrebbe più che raddoppiare.

Le analisi che considerano la spesa sanitaria articolata per Regioni, sotto diversi parametri, confermano che le criticità non risiedono in una carenza di mezzi.

Non di rado, anzi, a costi elevati corrisponde una bassa qualità dei servizi offerti.

Le misure, anche recenti, che sono state introdotte per controllare la spesa previdenziale non hanno generato una definitiva stabilità, essendo questa sottoposta alle pressioni di carattere demografico e alle incertezze della crescita.

La piena applicazione dei coefficienti di trasformazione già previsti dalla «legge Dini» potrebbe risultare non sufficiente a riequilibrare la spesa.

Altrettanto deficitario è il quadro delle tutele attive dei disoccupati che presenta servizi pubblici per l’impiego diffusamente carenti, un corpus normativo incompleto delle forme di integrazione del reddito, investimenti nella formazione iniziale e continua di dubbia efficacia. Le varie forme di sostegno al reddito non seguono così un disegno di incentivazione per il rapido re-inserimento lavorativo e concorrono esse stesse ad alimentare una fiorente economia sommersa.

Il sistema sanitario e quello socio–assistenziale Il sistema sanitario italiano è considerato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità uno dei primi al mondo in base ai tre parametri di valutazione complessiva: miglioramento dello stato di salute della popolazione, risposta alle aspettative di salute e di assistenza sanitaria dei cittadini, assicurazione delle cure sanitarie a tutta la popolazione. Non mancano tuttavia situazioni di estrema inefficienza soprattutto nelle aree del Mezzogiorno. Le disparità non sono dovute alla mancanza di mezzi, bensì a un differente impiego delle risorse.

Alcune Regioni hanno mantenuto o addirittura implementato modelli organizzativi obsoleti per cui a elevati livelli di spesa corrisponde una bassa qualità dei servizi erogati. Ne è riprova il fatto che sono sempre più consistenti i flussi di mobilità di pazienti dal Sud al Nord alla ricerca di prestazioni e livelli essenziali di qualità non erogati dalle Regioni di appartenenza, nonostante (e forse proprio a causa di) una capillare e abnorme diffusione di ospedali “generalisti”. L’incremento esponenziale dei costi e il dispendio di risorse umane e professionali è l’ovvia conseguenza.

I fenomeni di bassa natalità e invecchiamento della popolazione obbligano a una ridefinizione delle priorità del sistema sanitario. Si stima che nel 2045 gli ultrasessantacinquenni saranno il 30 per cento della popolazione e gli ultraottantenni il 12 per cento. Il peso delle malattie croniche, che già oggi colpiscono il 25 per cento della popolazione e rappresentano il 70 per cento della spesa, inciderà sempre di più sul bilancio del sistema di Welfare.

A un allungamento della aspettativa di vita non corrisponde la garanzia di una proporzionale vita attiva. Per gli ultrasettantacinquenni è di quasi dieci anni la prospettiva di vita in condizioni di disabilità. Dei 2,5 milioni di disabili presenti in Italia, ben 900mila sono di fatto confinati in casa vivendo in strutture che, per le barriere architettoniche esistenti, non consentono il loro agevole spostamento.

Il governo della qualità e quantità della spesa sanitaria rappresenta una condizione necessaria anche per la applicazione della nuova legislazione sul federalismo fiscale se è vero che ben tredici Regioni registrano un disavanzo di gestione, mentre l’85 per cento del disavanzo complessivo si concentra in Lazio,

Campania e Sicilia.

I costi operativi sono così profondamente diversificati nelle Regioni e il criterio della “spesa storica”, che è ancora oggi alla base del riparto del Fondo sanitario nazionale, risulta sempre più insopportabile per i cittadini che vivono nelle aree caratterizzate da maggiore efficienza.

Gli stessi livelli essenziali di assistenza da assicurare su tutto il territorio nazionale, sono diventati talora l’alibi per coprire inefficienze e sprechi, anche perché privi di efficaci meccanismi di controllo e monitoraggio. La loro introduzione non ha generato il cambiamento auspicato. Mancano strumenti informativi e valutativi in grado di cogliere le asimmetrie tra domanda e offerta di salute per arrivare a un loro progressivo riallineamento.

Anche per la spesa socio-assistenziale si registra una profonda cesura tra le varie aree del Paese. Se nelle aree più efficienti si è realizzata una adeguata integrazione tra servizi sociali, sanitari e assistenziali, nel Centro-Sud essa è gestita prevalentemente dagli Enti locali. Secondo dati ISTAT, si va dai 146 euro per abitante del Nord-Est ai 40 euro del Sud, spesso con scarsa capacità di monitoraggio dei risultati da parte degli organi amministrativi e politici.

Le azioni in questo campo sono frammentate territorialmente. Manca una integrazione con le politiche sanitarie. Sovrapposizioni e inefficienze delle istituzioni condizionano la qualità del servizio e non favoriscono lo sviluppo di sinergie con gli attori sociali e il volontariato.

Non mancano modelli di successo fondati sulla appropriatezza delle prestazioni, con particolare riferimento alla loro erogazione nel luogo e con le modalità più idonee.

Accanto a Regioni nelle quali si riscontra un ricorso inappropriato al ricovero ospedaliero in conseguenza dell’eccesso di offerta vi sono altre Regioni ove l’assistenza ospedaliera è già concentrata e organizzata in network a elevata tecnologia e professionalità ed è in grado di garantire ai malati acuti le migliori opportunità di cura secondo costi compatibili.

Le relazioni di lavoro.

Marco Biagi considerava il nostro mercato del lavoro come il peggiore d’Europa.

Con un tasso di disoccupazione a doppia cifra e percentuali troppo basse di partecipazione attiva al mercato del lavoro – soprattutto da parte di giovani, donne e ultracinquantenni – compensati da una attitudine diffusa alla informalità e al sommerso.

Dieci anni di riforme del mercato del lavoro – anche se non hanno sciolto il nodo di una più moderna regolazione della risoluzione individuale del rapporto di lavoro – non sono passati inutilmente e oggi iniziamo a raccogliere i primi risultati. Dal 1997 sono stati creati più di tre milioni di posti di lavoro, due terzi dei quali rappresentati da contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato.

Il tasso di occupazione, così decisivo per la sostenibilità del sistema di Welfare e il radicamento di una società attiva, si è lentamente avvicinato alla media europea crescendo di quasi 10 punti percentuali. È aumentato sensibilmente il numero di donne presenti nel mercato del lavoro.

Grazie alle riforme introdotte si è diffuso – anche se in termini non ancora sufficienti – l’impiego del lavoro a tempo parziale e di quelle forme di lavoro a orario modulato che, consentendo una migliore conciliazione tra tempo di lavoro remunerato e lavoro di cura, offrono opportunità di inclusione sociale a persone altrimenti escluse dal mercato di lavoro.

Rimane tuttavia ancora insufficiente il livello complessivo di valorizzazione del capitale umano con particolare riferimento a Mezzogiorno e occupazione femminile.

I giovani entrano tardi e male – e cioè in età avanzata rispetto ai coetanei europei e con conoscenze poco spendibili – nel mercato del lavoro con la conseguenza di un frequente intrappolamento ai margini di esso e con lavori di bassa qualità.

Le donne sono costrette a percorsi discontinui per le persistenti difficoltà di conciliazione del tempo di lavoro con le cure domestiche. Subiscono discriminazioni nella carriera, nell’accesso al lavoro e nella remunerazione.

I lavoratori – e ancor più le lavoratrici – in età avanzata sono spesso indotti a un abbandono precoce del lavoro regolare anche in conseguenza della struttura rigida della retribuzione. Nel complesso, è diffusamente assente l’opportunità di percorsi di continuo apprendimento a causa delle caratteristiche autoreferenziali della offerta formativa e della insufficiente valorizzazione dell’impresa quale luogo più idoneo all’aggiornamento delle competenze.

Anche dopo le recenti innovazioni apportate dalle leggi Treu e Biagi è palese l’insofferenza verso un corpo normativo sovrabbondante e ostile che, pur senza dare vere sicurezze a chi lavora, intralcia inutilmente il dinamismo dei processi produttivi e l’innovazione nella organizzazione del lavoro.

I lavoratori chiedono maggiori e più incisive tutele. Le imprese reclamano a loro volta un quadro di regole semplici, sostanziali più che formali, accettate e rispettate in quanto capaci di contribuire a cementare rapporti fiduciari e collaborativi.

Il processo di semplificazione documentale nella gestione dei rapporti di lavoro, avviato nel corso della Legislatura, rappresenta un primo passo per liberare il lavoro dal peso, divenuto oramai insostenibile, di una regolazione di dettaglio che intralcia, in un formalismo giuridico fine a se stesso e fonte di uno smisurato contenzioso, la libertà di azione degli operatori economici senza portare alcun contributo alla tutela dei lavoratori.

Le storiche carenze del mercato del lavoro si combinano con una insufficiente disponibilità di servizi di accompagnamento al lavoro e con un sistema incompiuto di protezione del reddito dei disoccupati che necessita periodicamente di interventi straordinari.

L’apertura a operatori privati polifunzionali, che operano in regime di autorizzazione o accreditamento e in cooperazione con i servizi pubblici del lavoro, ha ampliato la rete degli sportelli in grado di offrire formazione, orientamento, accompagnamento nel mercato del lavoro regolare. Ma siamo ancora lontani, per numero e qualità di operatori, dalle migliori esperienze internazionali.

Le potenzialità del nuovo apprendistato sono molte ma ancora largamente inespresse. Non solo nella versione tradizionale e di tipo professionalizzante, volta cioè a insegnare un mestiere. Ancor più innovativi e fondamentali, per l’investimento in capitale umano e la produttività del lavoro, sono i contratti di apprendistato che consentono il conseguimento di un titolo di studio. Come nel caso dell’apprendistato per l’esercizio del diritto dovere di istruzione e formazione, che consente l’acquisizione di una qualifica del secondo ciclo, e come nel caso dell’apprendistato di alta formazione che è indirizzato sia ai percorsi tecnico professionali sia alla acquisizione di un titolo universitario e persino di un dottorato di ricerca.

Il futuro occupazionale e previdenziale dei nostri giovani si costruisce qui.

Lavorando sulla qualità del sistema educativo e sul quel gioco di anticipo che consenta, attraverso un effettivo raccordo tra scuola e impresa, un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Sensibilizzando il sistema produttivo sulla valenza culturale e di prospettiva della accettazione delle generazioni in fase di apprendimento all’interno delle proprie strutture, per valorizzare al massimo la capacità formativa della impresa, sino a oggi sottovalutata da tutti gli attori del mercato.

Con le recenti riforme il quadro normativo si è collocato in questa direzione.

Ma le molte previsioni di legge in materia sono rimaste disattese nella prassi operativa per il radicamento di una concezione assai vecchia dei modelli educativi e formativi. Una concezione lontana dalle logiche dei nuovi sistemi di produzione e organizzazione del lavoro che porta ancora a vedere nella scuola e nel lavoro due mondi inesorabilmente separati.

Il terzo settore.

Il terzo settore costituisce un punto di forza del modello sociale italiano e ancor più rilevanti sono le sue potenzialità. Non si tratta solo di un soggetto “terzo” – come suggerirebbe la stessa definizione – che si pone come erogatore di servizi tra Stato e mercato, in un ruolo di supplenza, per coprire le insufficienze del pubblico e del privato. Si tratta piuttosto di un attore particolare, capace di produrre relazioni e di tessere i fili smarriti della comunità.

Il terzo settore è un soggetto flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei servizi e del lavoro nell’era post-industriale, ma è soprattutto un patrimonio di esperienze e di partecipazione che non si può disperdere.

Enormi, e in parte non ancora esplorate, sono dunque le potenzialità del terzo settore nella rifondazione del nostro sistema sociale visto che già oggi associazioni, gruppi di volontariato, imprese sociali, fondazioni e corpi intermedi si caricano dei bisogni dei singoli e trovano soluzioni innovative a essi.

Altrettanto evidente è il ruolo strategico del mondo cooperativo, sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale che si pone quale protagonista dinamico di uno sviluppo inteso non esclusivamente in senso materialista, ma come accrescimento delle libertà di autodeterminazione e autorealizzazione delle persone.

Le cooperative – lo ha ricordato il Segretario Generale delle Nazioni Unite [Nel corso dei lavori della Assemblea Generale delle Nazioni Unite del luglio del 1994.] – forniscono mezzi organizzativi tramite i quali una significante parte della umanità è in grado di prendere nelle proprie mani il proprio destino in termini di occupazione, fuoriuscita dalla povertà e integrazione sociale.

Ritorna anche in questo decisivo ambito la lacerazione interna al Paese. La presenza nel Mezzogiorno di strutture pubbliche inefficienti e chiuse al contributo delle libere espressioni della generosità collettiva impedisce lo sviluppo di una diffusa cultura della responsabilità.

3. I valori: persona, famiglia, comunità

Le politiche sociali possono essere ripensate partendo dalla idea, così antica eppure così moderna, che riconosce come primo fattore di costruzione sociale la responsabilità umana.

È una sfida che deve identificare con chiarezza i riferimenti e i valori intorno a cui orientare l’opera di ricostruzione del sistema di Welfare. Questo Libro Bianco vuole identificarli nell’insieme dei valori fondamentali della nostra Carta costituzionale, riscoprendoli nella loro originaria valenza di un patto fondamentale che è valso a riattivare il Paese nell’immane opera della ricostruzione dopo la guerra e la dittatura.

La persona.

Il primo tra questi valori è la centralità della persona. La Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Non è l’uomo in funzione dello Stato, ma quest’ultimo in funzione dell’uomo: la tutela della inviolabilità di ogni vita umana costituisce il primo limite alla autorità pubblica e allo stesso tempo il suo fine ultimo. Tutto l’ordinamento deve conformarsi all’insieme delle esigenze (materiali, culturali, relazionali) della persona, posta al cuore dell’intero edificio costituzionale.

Ed è proprio il riconoscimento della dignità della vita e del valore di ogni singola persona che questo Libro Bianco vuole porre a fondamento della sua visione generale, prima di ogni altra considerazione relativa ai costi, alle risorse, ai calcoli, alle convenienze.

Il Welfare State tradizionale si è sviluppato sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva assiomaticamente associato a “morale”, perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali. È stato un grave errore, che ha in parte compromesso l’eredità di una antica e consolidata tradizione di Welfare Society tipica della società europea e di quella italiana in modo particolare.

Oggi, è l’evidenza stessa della crisi che obbliga ad abbandonare le vecchie ideologie per ritornare al realismo di questa visione positiva dell’uomo e delle sue relazioni che suggerisce di cambiare alcune delle logiche cui si è ispirata l’azione pubblica nel campo delle politiche sociali.

Si è favorito l’assistenzialismo anziché la realizzazione di un Welfare delle opportunità diretto a sviluppare le potenzialità della persona, a promuovere le capacità umane. Si è privilegiato il controllo ex ante – realizzato attraverso fiumi di piccole regole complicate e minuziose che ostacolano, comprimono e snervano le potenzialità della cittadinanza attiva – rispetto al controllo ex post, basato invece su un ampio riconoscimento di libertà e fiducia e sul rigore nella repressione delle eventuali violazioni sostanziali.

La famiglia.

Nella Costituzione italiana la famiglia è riconosciuta come società naturale fondata sul matrimonio. Per effetto della assunzione di responsabilità pubblica che consegue al matrimonio e della stabilità degli affetti, la famiglia genera un valore sociale aggiunto.

La famiglia non costituisce quindi una mera comunità di affetti libera da vincoli. Né può essere raffigurata quale cellula genetica dello Stato. Si configura, piuttosto, come il nucleo primario intorno al quale si addensa la vita sociale, capace di trasmettere al singolo il primo impulso al sentimento della solidarietà, secondo la concezione personalistica accolta dal Costituente.

La famiglia è un attore sociale. Anzi, è la relazione sorgiva del sociale, perché connette in modo unico generi e generazioni, attraverso la dimensione dell’amore come dono reciproco.

Nel riconoscere e promuovere la famiglia, la società gioca la sua stessa sopravvivenza. Esiste un legame inscindibile tra il benessere della famiglia e quello della società. La famiglia vuol dire tessitura di legami verticali, solidarietà intergenerazionale, relazioni che danno il senso della continuità temporale; vuol dire rapporti di prossimità, parentela e vicinanza orizzontale, che consentono

la coesione comunitaria. Serve a trasmettere ai figli il patrimonio, ma anche la cultura, la fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini, così necessario alla identità di ciascuno.

La famiglia è anche una cellula economica fondamentale. Centro di redistribuzione del reddito e delle rendite. Ed è soprattutto il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni.

La comunità.

Una idea di libertà assoluta, svincolata da ogni legame, identificata nella possibilità di attuare qualunque scelta purché ipotizzabile, ha condotto le persone a sperimentare la vertigine di una solitudine esistenziale sempre più isolante. Alla incapacità di aderire alla realtà è conseguita una maggiore fragilità esistenziale e morale. Un individuo isolato e inerme di fronte alla realtà è l’esito ultimo di un certo nichilismo moderno.

Le società intermedie costituiscono un antidoto a questa deriva. Un principio sociale in grado di originare un Welfare comunitario. Una rete fatta di persone, famiglie, piccole comunità, associazioni, imprese profittevoli e non, volontariato, cooperative che alimenta il senso di responsabilità civile, la fiducia e la solidarietà reciproca.

I corpi sociali e le comunità intermedie non sono entità da sospettare. Non sono elementi espropriativi della individualità, ma luoghi in cui la dinamica delle relazioni aiuta ciascuna persona a crescere e a maturare coscienza di sé e delle proprie potenzialità.

Il principio di sussidiarietà trova oggi un esplicito riconoscimento nella Costituzione. Non si è trattato di una semplice novella, quanto piuttosto di una riconsiderazione complessiva del nostro stare insieme, che esplicita con chiarezza quanto si poteva già ritenere racchiuso nella Carta costituzionale, ma che la prassi attuativa aveva sistematicamente disconosciuto.

I modelli sociali basati sul solo Welfare State, oltre a non fornire incentivi alla efficienza e alla innovazione, sono anche inadeguati ai bisogni della persona.

Peccano di paternalismo, perché guardano al bisogno, ma non alla persona che ne è portatrice. E sono spesso anche iniqui, perché in un sistema che non incentiva la libertà e la responsabilità le persone povere e poco istruite sono meno in grado di usufruire adeguatamente dei servizi erogati.

Occorre rivisitare, attraverso la formula della sussidiarietà, quella forma di governance per cui il monopolio statale sulla decisione di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari.

Ciò non implica costruire un sistema di Welfare rinunciatario rispetto alle esigenze di universalità e che non tenga conto della necessità di assicurare l’uguaglianza di trattamento, soprattutto verso i meno abbienti. Più semplicemente deve cambiare il ruolo dell’attore pubblico. Invece di essere il monopolista della erogazione è chiamato a determinare le linee guida degli interventi e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi.

Le asimmetrie informative, per cui non vengono scelti gli agenti migliori da parte degli utenti, possono essere superate introducendo sistemi di valutazione e accreditamento degli operatori, attuati anche mediante l’aiuto di organismi centrali indipendenti.

La salute.

La salute è l’unico diritto che la Costituzione qualifica espressamente come fondamentale. È questo un altro aspetto della centralità della persona.

Questo Libro Bianco vuole riaffermare l’assoluta primarietà di questo diritto e nello stesso tempo precisare che il suo soddisfacimento non può avvenire considerando i bisogni delle persone in modo anonimo, prescindendo dalle preferenze delle persone e dalla trama delle relazioni, come avveniva nel vecchio modello di Welfare.

Si deve tuttavia tenere conto dell’irrompere delle nuove tecnologie nei momenti fondamentali della vita di ogni singola persona, come quelli di inizio e fine vita, ma anche nel concetto stesso di famiglia, e rende necessario un adattamento della idea di sussidiarietà.

Se la scelta del paziente diventa un diritto esigibile, e coincide ad esempio con il “diritto” al figlio sano o con il “diritto” a morire, o anche con la richiesta di conservare per sé le proprie cellule e tessuti, abbandonando la tradizione solidaristica su cui si basa la donazione del sangue, degli organi e dei tessuti per trapianti, allora il principio secondo cui le risorse seguono la scelta del paziente non risponde più a un concetto di sussidiarietà, ma seguirà inevitabilmente i criteri di un nuovo mercato dei desideri che si costruisce intorno al corpo umano.

In una condizione simile è più facile enfatizzare la dimensione del “consumo” della offerta di salute e inserire elementi propagandistici che non obbediscono a principi di appropriatezza, utilità e bene comune. Se non è più possibile né utile distribuire ai cittadini beni e servizi in forma assistenziale e paternalistica, è però necessario saper individuare i bisogni e le modalità appropriate per rispondervi, tenendo sempre presente il bene comune.

Il lavoro e l’impresa.

Il lavoro rappresenta un caposaldo della democrazia del nostro Paese. Si evince con chiarezza dal primo articolo della Costituzione che fonda la Repubblica proprio sul lavoro.

Riportato nei veri termini con i quali i Costituenti lo intesero, il lavoro torna a essere l’ambito nel quale si misura la riuscita della integrazione sociale. È nel lavoro che l’uomo scopre la sua dignità, sviluppa relazioni sociali ed esercita il proprio desiderio di costruire.

La Carta costituzionale esprime la necessità che ciascuno si impegni in una opera con la quale contribuire attivamente alla costruzione della vita buona.

Non si tratta, per il singolo, di remunerare la società, con il proprio lavoro.

La Costituzione si pone ben oltre una logica utilitarista o contrattualistica.

L’affermazione che ciascuno è impegnato nel progresso sociale implica, infatti, la presenza di un ideale e di un progetto comune, alla cui edificazione ciascuno è personalmente chiamato a contribuire.

Questa concezione del lavoro vede nelle attività che ciascuno è chiamato a svolgere una sfida innanzitutto a sé, a superare i propri limiti e i propri egoismi, e anche una possibilità di intraprendere, di imparare, di migliorarsi. Di partecipare, insomma, in modo attivo alla società e al suo sviluppo, quale che sia il lavoro o il mestiere che si fa. Perché ogni lavoro e ogni mestiere – e ciò vale per quei giovani italiani che oggi rifiutano sistematicamente certe occupazioni – ha la sua importanza e la sua dignità.

La Costituzione tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. In particolare tre diritti appaiono fondamentali per la piena espressione della persona attraverso il lavoro in condizioni di parità delle opportunità e indipendentemente da formalismi e qualificazioni giuridiche.

Il diritto ad ambienti di lavoro sicuri, innanzitutto. E il diritto a un compenso equo non solo in quanto idoneo a garantire una esistenza libera e dignitosa ma anche perché proporzionato ai risultati dell’impresa. A questi si deve aggiungere un diritto di nuova generazione, ancora poco effettivo nel nostro Paese, quello all’incremento delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita quale vera garanzia di stabilità occupazionale e di espressione delle proprie potenzialità.

La Costituzione riconosce il diritto di sciopero e la libertà di organizzazione sindacale. Ma riconosce anche, ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende in una logica di democrazia economica ancora poco esplorata nel nostro Paese.

La priorità assegnata al lavoro non deve peraltro far dimenticare la tutela costituzionale della libertà di iniziativa economica privata e dunque di impresa.

Il fatto che l’impresa debba essere, il più possibile, libera nel suo agire e nel suo sviluppo s’impone dalla sua stessa natura: la libera iniziativa. Senza questa libertà non è possibile intraprendere le attività necessarie per presentarsi a lungo termine sul mercato e vivere in modo creativo il rapporto con la concorrenza.

Un moderno sistema di Welfare non può del resto manifestarsi unicamente nella tutela e nella promozione del lavoro dipendente. Anche le professioni, il lavoro autonomo, il lavoro in forma cooperativa e associata, l’autoimprenditorialità e la connessa cultura del rischio di impresa devono essere riconosciuti come valori che meritano apprezzamento sociale e sostegno istituzionale.

Dei diritti e dei doveri.

L’atteggiamento delle giovani generazioni nei confronti della società e del contesto nel quale vivono rappresenta una vera e propria emergenza educativa.

Deresponsabilizzazione, incapacità a mettere in relazione le proprie aspirazioni con le esigenze sociali del momento e profondo senso di distacco dalla collettività colpiscono al contempo i giovani e la società: generano frustrazione nei primi e nelle loro famiglie e privano il Paese della inventiva e delle energie proprie delle nuove generazioni.

La parabola della condizione giovanile sembra seguire quella della società intera.

Una enorme insistenza sui diritti e uno scollamento con i doveri che normalmente derivano dalla convivenza sociale. La moltiplicazione di diritti “insaziabili” determina la perdita del senso del bene comune che non è certamente la mera sommatoria del bene dei singoli individui.

Il precariato diffuso, la mancanza di un lavoro, il difficile accesso alla casa, la crisi delle sedi della educazione e della formazione non sono le cause, ma semmai le inevitabili conseguenze di un silenzioso mutamento sociale che ha fatto dell’Italia un Paese bloccato.

Occorre pertanto ripartire dalle fondamenta e cioè dalla educazione, dalla formazione e dal lavoro che sono i valori di riferimento contenuti nella nostra Carta costituzionale. Istituzioni e famiglie devono offrire ai giovani un modello di comportamento fondato sulla responsabilità, in primo luogo quella di essere utili a sé e agli altri, sostenendolo con forme di protezione che, in un opportuno bilanciamento di diritti e doveri, garantiscano non gratuite e deresponsabilizzanti sicurezze ma ricorrenti opportunità di inclusione e di crescita.

Anche le delicate problematiche attinenti alla immigrazione sono spesso affrontate separando la prospettiva della cittadinanza da quella del lavoro. In tal modo, non si fa un favore né all’immigrato, né alla Costituzione. Cittadinanza e lavoro erano per il Costituente concetti quasi inseparabili. Ragione per cui non è possibile ridurre il problema della immigrazione solo a una discussione sui diritti da riconoscere agli immigrati.

I diritti degli immigrati non possono essere artificiosamente slegati dai loro doveri a partire da quello di contribuire al benessere sociale attraverso una attività lavorativa senza la quale sono trasformati in assistiti, alimentando un senso di alienazione e disperazione.

Le regole della integrazione vanno declinate oltre l’emergenza. Innanzitutto definendo quale sia l’effettiva capacità ricettiva del nostro Paese, stabilendo una precisa strategia degli ingressi, a partire dalle attività di formazione nei paesi di origine. Questo per tutelare la coesione sociale e per non illudere chi desidera entrare a far parte della nostra comunità di avere garantita una protezione sociale che poi effettivamente potrebbe non realizzarsi.

E’ necessario creare un sistema per il quale chi arriva in Italia può confrontarsi con una identità fondata sul rispetto e la dignità della vita, una società aperta e una popolazione unita sulla propria tradizione.

La conoscenza della lingua e della nostra cultura, il rispetto per i valori fondanti del nostro Paese e l’osservanza delle leggi vigenti sono i requisiti minimi perché avvenga una sana inclusione sociale, senza ambiguità e moralismi. A questo scopo la scuola ricopre un ruolo decisivo.

Appare necessaria una politica che rispetti il principio di sussidiarietà e sappia riconoscere le differenze. La categoria “immigrati” è ormai inadeguata per comprendere uomini provenienti dall’Est e donne dei Paesi islamici, minori non accompagnati e persone in cerca di asilo, gruppi difficilmente permeabili e altri che spontaneamente tendono a mescolarsi.

Per immaginare politiche di vera inclusione sociale è necessario introdurre fondamentali distinzioni: tra prima e seconda accoglienza, tra migrazione residenziale e rotazionale, tra le diverse etnie, tra i generi, le età, la prima e seconda generazione, in particolare la tutela dei minori deve essere piena e indipendente dalle modalità di ingresso.

Bisogna soprattutto affrontare in modo diversificato il problema di chi, provenendo da altri Paesi, vuole restare in Italia e chi, invece, vuole tornare nella terra d’origine.

La sussidiarietà verticale: il federalismo fiscale.

La mancata attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con la sua previsione di una finanza regionale e locale autonoma, pesa sul sistema italiano perché dissocia gravemente la responsabilità impositiva da quella di spesa.

Lo Stato rimane il “pagatore di ultima istanza” di una spesa che avviene ormai, senza adeguati meccanismi di responsabilizzazione, in gran parte a livello regionale e locale. Il tutto ha favorito la duplicazione di strutture, l’esplosione dei costi, la mancanza di trasparenza e ha reso difficile il controllo democratico degli elettori.

Soprattutto nel settore della sanità e delle politiche sociali esistono nel nostro Paese aree geografiche dall’inaccettabile livello di inefficienza, con creazione di veri e propri “buchi neri” per il bilancio dello Stato, ove ingentissime risorse dei contribuenti nazionali sono dissipate senza minimamente creare servizi adeguati alla popolazione di riferimento.

Molti di questi effetti perversi sono l’esito di una situazione istituzionale che ha interrotto il centralismo, ma non ha ancora creato il federalismo.

Il passaggio dal finanziamento della spesa storica (che finanzia i servizi e l’inefficienza) a quello del costo standard (che finanzia solo i servizi) permetterà, in un quadro che non pregiudicherà i livelli essenziali dei servizi, una razionalizzazione della spesa pubblica diretta a evitare che si confonda la solidarietà con la difesa di clientele, sprechi e rendite.

La trasformazione in autonomia impositiva regionale e locale degli attuali trasferimenti statali, con conseguente riduzione della pressione fiscale statale, rende tracciabili i tributi: i cittadini entrano nella condizione di potere giudicare effettivamente con il voto l’operato delle amministrazioni regionali e locali senza confusione delle responsabilità e facili assoluzioni.

Il “fallimento” politico, conseguenza automatica di definiti indicatori di bilancio, produce il commissariamento dell’ente, il ritorno alle urne e la inevitabile ineleggibilità di quegli amministratori che hanno prodotto il dissesto finanziario.

4. La visione: il nuovo modello delle opportunità e delle responsabilità

Proteggere e dare sicurezze alle persone “dalla culla alla tomba”. È la funzione tradizionalmente assolta dai sistemi di Welfare. È un compito basilare che va confermato e potenziato in termini di effettività e maggiore congruità tra obiettivi, risorse e strumenti.

Il rinnovamento del sistema di protezione sociale passa, piuttosto, da una più compiuta definizione del «bene–essere» fisico e psichico delle persone in linea con i grandi cambiamenti nella coscienza dei bisogni e nella struttura delle risposte.

Proteggere e dare sicurezze significa individuare e prevenire quelli che sono oggi i nuovi fattori di rischio e di debolezza. Governare le nuove patologie. Offrire un orizzonte di umanità e dignità. Contrastare le nuove fonti di diseguaglianza sociale. Costruire reti di relazioni tra individui e comunità evitando la solitudine.

Promuovere solidi percorsi di inclusione garantendo a tutti pari opportunità di accesso. Organizzare prestazioni di beni e servizi e non solo erogazioni monetarie. Disegnare nuove politiche che non si limitino a erogare passivamente tutele e sussidi, di tipo risarcitorio o assistenziale, a chi esce dalla condizione di soggetto attivo.

La concessione di tutele e sussidi deve essere condizionata, là dove possibile, alla partecipazione attiva nella società attraverso un percorso che garantisca continue opportunità e stimoli e, al tempo stesso, la responsabilità del singolo. E deve indirizzare le persone verso comportamenti attivi e stili di vita responsabili, prevenendo le situazioni di bisogno dovute a eventi fisiologici (infanzia, maternità, vecchiaia), patologici (malattia, infortunio, disabilità) o anche a particolari situazioni economiche (crisi aziendale o occupazionale, disoccupazione, fine lavoro).

È l’idea della persona che cerca prima di tutto di potenziare le proprie risorse per rispondere al bisogno, della persona che vive in maniera responsabile la propria libertà e la ricerca di risposte alle proprie insicurezze, a essere al centro di questo Libro Bianco.

Frammentare i bisogni della persona e le risposte del Welfare a questi bisogni appartiene a una logica del passato. Una logica assistenzialistica che alimenta i fattori di disuguaglianza sociale e che, da tempo, non trova più rispondenza rispetto ai nuovi modelli organizzativi della società, della economia e del lavoro.

La ricomposizione del divario territoriale.

Questa visione comporta necessariamente la scelta del territorio quale ambito più idoneo a realizzare risposte integrate e quanto più preventive ai bisogni attuali e potenziali della persona, valorizzando i corpi intermedi e gli altri attori della comunità locale.

È nel territorio che si integrano le politiche rivolte a garantire la continua occupabilità delle persone prevenendo così l’esclusione dal mercato del lavoro. È nel territorio che si sviluppano i servizi socio-sanitari rivolti alla prevenzione, alla diagnostica precoce, alle cure primarie, all’assistenza domiciliare. È nel territorio che si realizzano i servizi di cura per sostenere la natalità, le azioni personalizzate per contrastare la povertà, le politiche per promuovere l’integrazione della immigrazione, a partire dai minori. È sempre nel territorio che vive la famiglia, si esprimono le migliori energie sociali come il volontariato, si realizzano le nuove relazioni industriali di tipo cooperativo e i loro organismi bilaterali.

Questo Libro Bianco segnala in modo ricorrente il profondo divario tra Nord e Sud. Ed è proprio sui ritardi del Mezzogiorno che si misurano i valori e la visione qui descritti in quanto utili a stimolare la responsabilità e la progettualità delle comunità e delle istituzioni locali nell’ambito di linee guida nazionali.

Il primo obiettivo per la stessa crescita economica di queste aree non può non essere lo sviluppo delle sue risorse umane, dalla presa in carico per la salute in sistemi efficienti agli investimenti nelle conoscenze e competenze. Ovvero l’opposto della ricorrente autoreferenzialità delle attuali strutture della offerta.

Il federalismo fiscale appare la riforma istituzionale più significativa per valorizzare compiutamente la dimensione del territorio e in ciascun territorio la responsabilità degli amministratori locali, a partire dal Mezzogiorno. Ne sono decisiva premessa i “piani di rientro” dal disavanzo sanitario delle Regioni indebitate in quanto possono – se rigorosamente applicati – condurre in tempi brevi ad una radicale riorganizzazione dei servizi socio-sanitari con benefici concretamente percepiti dai cittadini oggi spesso costretti al “treno della speranza”.

L’Italia può e deve essere ricomposta a partire proprio dal nuovo sistema di protezione e di inclusione sociale, strumento di giustizia sociale ma anche di crescita economica. La centralità della persona conduce a una politica pubblica di prossimità e di sussidiarietà.

Le parole del nuovo Welfare.

Una più compiuta definizione del «bene–essere» fisico e psichico delle persone impone di prendere atto delle profonde trasformazioni di alcune parole chiave del sistema di Welfare.

Salute non identifica più semplicemente la cura della malattia ma, prima ancora, la promozione del benessere e lo sviluppo delle capacità personali, tenendo conto delle differenti condizioni di ciascuno.

È una autentica rivoluzione che incide sui modelli di organizzazione sanitaria spostando l’attenzione dalla fase acuta alla prevenzione primaria e secondaria, alla promozione di corretti stili di vita, ai rapporti tra salute, sicurezza, ambiente di vita e di lavoro.

Considerare la salute una risorsa preziosa, anche in termini economici, ha accelerato i processi di ricerca, nell’area del farmaco e delle tecnologie

biomediche. Ha imposto i temi della riabilitazione e del reinserimento, sociale e lavorativo, dopo la fase acuta.

Lo sviluppo della biologia molecolare e delle tecnologie informatiche sono i fattori nuovi destinati a cambiare il modo di fare medicina. Le biotecnologie consentono l’uso di farmaci mirati in grado di “disegnare” la terapia sul singolo paziente con significativi benefici sulla efficacia delle cure e la qualità della vita.

Con la medicina predittiva si aprono scenari nuovi e si pongono anche nuovi problemi che possono essere risolti assumendo una corretta prospettiva etica tale da garantire il rispetto della persona e dei suoi valori.

La partecipazione attiva del cittadino, una corretta informazione e cultura della salute, essenziale in una epoca di grandi cambiamenti, un rinnovato rapporto fiduciario tra medico di famiglia e paziente, sono i presupposti per promuovere la vita sana nella società attiva. Per utilizzare appieno le opportunità offerte dalla tecnologia, dalla ricerca e dalla scienza.

Anche la parola lavoratore non identifica più – semplicisticamente – il titolare di un contratto di lavoro dipendente. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase della attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si alternano fasi di lavoro dipendente e autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale.

I mutamenti in atto inducono a prestare maggiore attenzione ai nuovi lavori resi anche in forma autonoma o associativa o, come nel caso del lavoro accessorio di tipo occasionale, regolabile con i buoni lavoro senza un preciso vincolo contrattuale.

Al centro delle dinamiche del mercato del lavoro è ora una persona in frequente transizione da una occupazione all’altra ovvero dalla fase di attività a quella di inattività o a un percorso formativo.

Da una concezione statica di tutela del singolo posto di lavoro si deve definitivamente passare alla promozione della occupabilità della persona avviando, come già ipotizzato dalla legge Biagi, la costruzione di una rete di tutele sul mercato che preveda il coinvolgimento del mondo associativo e degli enti bilaterali e una maggiore attenzione al potenziamento delle competenze del lavoratore tale da consentirgli di prevenire e gestire al meglio le criticità nelle transizioni occupazionali.

Le politiche integrate sulla vita.

L’integrazione socio-sanitario-assistenziale è il principio cardine per garantire il passaggio da un Welfare assistenziale a un Welfare delle responsabilità condivise.

Politiche integrate sulla vita agevolano il passaggio da una offerta settoriale a una offerta di interventi rivolti alla persona e alla famiglia, sostenendo le fragilità, favorendo lo sviluppo di capacità individuali e la promozione di reti di relazioni.

Solo in questo modo è possibile rispondere alla complessità del bisogno di salute delle persone (il patrimonio genetico, le variabili fisiopatologiche, l’ambiente, gli stili di vita, la storia personale e familiare). I fattori da considerare sono molteplici, così come l’intensità degli stessi (fasi intensiva, estensiva, di lungo-assistenza), la loro durata (breve, media, lunga), il costo degli interventi, l’apporto dei diversi erogatori delle prestazioni, siano essi enti pubblici, privati lucrativi e non.

La rivoluzione epidemiologica in atto, lo sviluppo scientifico e la sua applicazione in medicina, in uno con l’attesa di un miglioramento della qualità della vita, stanno determinando un significativo ridisegno delle funzioni assistenziali.

L’ospedale, come luogo di risposta predominante ai bisogni di salute e assistenza, lascia spazio a una filiera di servizi di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione per la non autosufficienza assolutamente innovativi anche nelle modalità di erogazione e organizzazione, in grado di rispondere con appropriatezza e puntualità alle richieste dell’utente. Tutto ciò, paradossalmente, con un minore costo del sistema.

Il modello di ospedale che si va consolidando opera in grandi reti. La tecnologia e le professionalità di cui si avvale sono elevate. Impiega metodiche di “dematerializzazione” nella trasmissione e archiviazione delle informazioni con capacità di risposta alla pluralità delle richieste del paziente, compresa la qualità e la sicurezza delle informazioni stesse.

Nella dimensione territoriale acquisiscono un ruolo crescente i servizi di assistenza domiciliare, le residenzialità extra ospedaliere per non autosufficienti disabili, anche con formule innovative, quali gli ospedali di comunità e gli hospice per i pazienti oncologici.

Lo sviluppo delle politiche di integrazione prevede una gestione unitaria dei servizi socio-sanitario-assistenziali in ambiti territoriali omogenei: la sistematicità e l’integrazione degli approcci, creando un continuum tra sistemi preposti alla cura della salute e sistemi addetti alla protezione sociale; lo sviluppo dei distretti socio-sanitari quali centri di riferimento dei cittadini e sede della integrazione operativa; la programmazione territoriale; il superamento della distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di una soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi.

Il Welfare delle opportunità va oltre il concetto di integrazione tra ospedale e territorio, perché sa cogliere il valore della sinergia tra ambienti professionali con competenze diverse, ma assolutamente complementari nel percorso di cura e presa in carico della persona. Lo stesso vale per l’integrazione tra medici di medicina generale e altre figure professionali che operano sul territorio, promuovendo culture e saperi interdisciplinari e interprofessionali.

Anche nella formula organizzativa, la medicina generale sta cambiando, con il superamento della figura del medico “solista”, per approdare a nuove forme di associazione e collaborazione, che consentano di dar vita a un sicuro e stabile riferimento per il paziente lungo l’arco della giornata e della settimana.

La maternità.

La maternità costituisce un aspetto fondamentale della società attiva, partendo dal riconoscimento del valore della differenza. Le politiche di pari opportunità non devono ignorare la differenza di genere: la discriminazione si verifica, infatti, non solo quando soggetti uguali vengono trattati in modo diverso, ma anche quando soggetti diversi vengono trattati in modo uguale.

L’Italia si colloca, per tasso di natalità, agli ultimi posti in Europa e ai primi per tasso di invecchiamento. La bassa natalità è anche un freno alla produttività e allo sviluppo e un peso per le future generazioni.

Eppure la famiglia è più solida che altrove. Lo dimostrano il tasso di divorzi, tra i più bassi in Europa, e in generale i dati sulla capacità delle famiglie di risparmiare, redistribuire i redditi al proprio interno, scambiare aiuto e sostegno tra le generazioni.

Il desiderio di maternità è rimasto, negli ultimi decenni, pressoché inalterato. Le donne vorrebbero più figli di quelli che in realtà fanno. Si pone un problema inedito di libertà femminile, che riguarda la possibilità di procreare, di avere bambini senza essere pesantemente penalizzate.

La divaricazione tra il desiderio di maternità e la sua realizzazione è spesso attribuita alla carenza di servizi per l’infanzia o ai bassi tassi di occupazione femminile. Ciò può essere vero solo in parte. Se si esaminano le percentuali di natalità nelle Regioni in cui vi è il numero più alto e la migliore qualità di asili nido, non si notano significative differenze di percentuale nelle nascite. Anche l’occupazione femminile non sembra un elemento decisivo. In alcune Regioni del Nord le percentuali di donne che lavorano sono al livello europeo senza che ciò incida in modo evidente sulle nascite.

Sulla rinuncia al figlio influiscono molti fattori, tra cui una fiscalità che non premia la famiglia, i persistenti ostacoli strutturali all’utilizzo del lavoro a tempo parziale e, in genere, l’impermeabilità tra tempi di lavoro e di cura e certamente l’insufficienza di alcuni servizi. Contano tuttavia anche influenze culturali più sottili: la progressiva perdita delle competenze genitoriali e del valore sociale della maternità, una tendenza all’eccesso di medicalizzazione della gravidanza e del parto, visto sempre meno come un evento naturale, la scarsa propensione degli uomini italiani alla condivisione dell’impegno domestico e la scarsissima valorizzazione del lavoro di cura.

La “presa in carico” della persona.

Un Welfare delle opportunità è fondato sulla “presa in carico” della persona attraverso una ampia rete di servizi e di operatori – indifferentemente pubblici o privati – che offrono, in ragione di precisi standard di qualità ed efficienza validi per tutto il territorio nazionale, non solo semplici servizi sociali e prestazioni assistenziali, ma anche la promessa di un miglioramento della vita quotidiana.

Esistono, purtroppo, malattie inguaribili, ma non esistono malati “incurabili”, cioè persone a cui non si possa fornire cura, aiuto e sollievo.

Le moderne tecnologie informatiche permettono oggi di seguire lo sviluppo integrale della persona, i suoi percorsi diagnostico terapeutici così come i suoi percorsi educativi, formativi e di lavoro, centralizzando i flussi informativi che vengono poi liberamente messi a disposizione degli operatori presenti sul territorio e dei servizi di prossimità alla famiglia e alla persona.

Uno degli strumenti essenziali per la presa in carico globale è il fascicolo personale elettronico, destinato a raccogliere le informazioni inerenti le varie fasi della vita, nonché gli interventi preventivi, curativi e riabilitativi e più in generale tutte le informazioni utili per l’integrazione sociale e la partecipazione attiva al mercato del lavoro.

Sul versante della salute il fascicolo elettronico deve essere finalizzato a raccogliere e trasmettere dati clinici individuali in modo da garantire la massima continuità delle tutele attraverso i diversi servizi. Ciò consente una immediata disponibilità, in caso di bisogno, di importanti informazioni sul paziente a prescindere dal luogo o situazione in cui si trovi.

La costruzione del fascicolo, la sua implementazione nel tempo, l’utilizzo delle informazioni e la loro tracciabilità pongono una grande sfida di innovazione tecnologica, ma soprattutto di cambiamento culturale, di responsabilità del cittadino verso la propria salute e del medico nei processi decisionali e terapeutici.

Il governo dei percorsi anche individuali di salute pone il problema, oltre che della rilevanza delle politiche extraospedaliere, anche di una rifondazione della medicina di base e delle cure primarie, delle reti di offerta.

La sperimentazione di forme associative e assistenziali innovative (medicina di gruppo, in rete, UTAP, casa della salute) consente di verificare la concreta possibilità di presa in carico del cittadino in riferimento a tutte le attività sociosanitarie che lo riguardano, di incentivare la prevenzione primaria, secondaria e terziaria, di sviluppare forme di assistenza domiciliare, di fornire un fondamentale supporto alla gestione della cronicità.

La medicina generale può diventare il “collettore” di tutte le energie e risorse presenti sul territorio: le reti del volontariato, i presidi come le farmacie, chiamate ad assolvere funzioni più ampie di servizio e supporto al cittadino, il servizio postale, in relazione alla sua capacità di validare le ricette elettroniche trasmesse o garantire il deposito protetto di dati sensibili. Queste reti possono costituire un prezioso tessuto connettivo tra cittadino e strutture sociali e sanitarie, in grado di avvicinare i servizi primari alla persona soprattutto se anziana e fragile.

Sul versante del lavoro il fascicolo elettronico deve essere finalizzato a raccogliere e trasmettere informazioni strategiche sui percorsi educativi, formativi, occupazionali e assistenziali, in modo da prevenire il bisogno e favorire un ottimale inserimento nel mercato del lavoro. Esso sarà lo strumento a disposizione in primo luogo della persona che potrà liberamente decidere in merito alla circolazione delle informazioni che la riguardano.

Il fascicolo sarà peraltro liberamente accessibile anche a tutti i servizi competenti al lavoro che necessitano di informazioni collegate in una ottica integrata in quanto fondamentali per l’inclusione sociale e la occupabilità. Pensiamo a una banca dati che, nel connettere e rendere effettivamente fruibili servizi oggi frammentati (libretto formativo, conto corrente delle posizioni assicurative presso le diverse gestioni previdenziali, sequenza dei rapporti di lavoro, titolarità di un sussidio da disoccupazione o sospensione del lavoro, assegni familiari, ecc.) aiuti a ricomporre in un disegno unitario carriere e percorsi formativi.

Emerge un nuovo concetto, quello di “percorso di lavoro”, che può svolgersi in settori diversi e con mansioni o tipologie contrattuali molto differenziate e richiedere competenze e conoscenze anche piuttosto lontane tra loro.

È la sicurezza legata all’inserimento continuativo in una stessa organizzazione produttiva che viene meno in questo nuovo contesto del mercato del lavoro.

E questa sicurezza deve oggi essere ripensata attraverso politiche attive personalizzate e sostenute da un efficiente sistema dei servizi al lavoro che accompagnino le libere scelte delle persone nelle sempre più frequenti transizioni professionali.

Il nesso tra occupazione e libertà costituisce il primo tassello delle riforme avviate con la legge Biagi.

Pensiamo al mercato del lavoro come a un luogo libero ma regolato. Anzi, libero perché regolato. Dove la libertà è, da parte della utenza, la possibilità di scegliere il servizio e gli erogatori che più si ritengono idonei e, da parte degli operatori dei servizi, la possibilità di definire innanzitutto le attività che si intendono esercitare e poi la forma e lo scopo delle stesse.

Le persone, soprattutto nei momenti di transizione, devono poter essere accompagnate da un sistema di servizi che risponda unitariamente a una pluralità di esigenze. Si pensi ai lavoratori che accedono a percorsi di riqualificazione e contemporaneamente hanno anche la necessità di avere una occupazione o un sussidio sufficiente al loro mantenimento.

Per farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario, in molti contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso la combinazione di differenti capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione dei servizi. Si tratta di favorire, in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio (partecipate da operatori pubblici e privati, profit e non profit) capaci di bilanciare aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di migliorare efficacia ed efficienza dei servizi.

L’attore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora, mediante i regimi di autorizzazione e accreditamento definiti nella legge Biagi, il soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul territorio del mercato dei servizi.

Strategici in questa prospettiva sono i servizi di orientamento e collocamento presso scuole e università in quanto utili a integrare sistemi educativi e mercato del lavoro.

La diffusione di siti – non sempre autorizzati – per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro ripropone su basi nuove l’esigenza di uno strumento istituzionale per favorire una più completa e trasparente circolazione delle informazioni relative a chi cerca lavoro o lavoratori.

Lo Statuto dei lavori.

Il superamento delle molte criticità nel mercato del lavoro – vere e proprie ingiustizie sociali per il valore che attribuiamo al lavoro come sede di sviluppo della persona – non può più essere affidato a una concezione formalistica e burocratica dei rapporti di lavoro che alimenta un imponente contenzioso e un sistema antagonista e conflittuale di relazioni industriali.

I tre diritti fondamentali del lavoro – salute e sicurezza, apprendimento continuo ed equa remunerazione – possono essere esaltati e meglio perseguiti nella ottica unitaria dello «Statuto dei lavori» ipotizzato da Marco Biagi quale corpo di tutele progressive del lavoro costruite per geometrie variabili in funzione della anzianità di servizio e del reale grado di dipendenza economica del lavoratore.

A quel punto le stesse proposte di incidere sul regime del recesso dal rapporto di lavoro potranno realizzare un maggiore consenso collegandosi a un congruo periodo di inserimento e collocandosi in un moderno sistema di tutele attive.

La maggiore enfasi sulle tutele nel mercato potrebbe anche facilitare la ricomposizione delle carriere e dei percorsi lavorativi – nella transizione da attivo, inattivo, dipendente, coordinato, in formazione – mediante meccanismi di ricongiunzione e totalizzazione.

Sono oramai maturi i tempi per assetti regolatori e statuti normativi specifici per tipologia di settore produttivo, ma anche territorialmente diversificati fermo restando uno standard protettivo minimo e omogeneo sull’intero territorio nazionale – soprattutto per quanto riguarda la tutela della salute e sicurezza sul lavoro – volto essenzialmente a scongiurare fenomeni di dumping sociale.

Per restare coerente alla propria ispirazione originaria, e nel contempo sostenere le logiche di sviluppo delle imprese, il diritto del lavoro dovrà in ogni caso superare i limiti della distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato in modo da ricomprendere nel suo campo di applicazione generale tutte le tipologie contrattuali in cui sia dedotta una attività lavorativa in senso ampio.

Abbracciare ogni forma di lavoro di indiscusso valore economico reso in un contesto organizzativo a favore o nell’interesse di altri rappresenta il primo passo per una graduazione delle tutele in funzione dei meriti e dei bisogni.

La strada dello «Statuto dei lavori», attenta ai meriti e ai bisogni della persona, presuppone un diritto del lavoro sostanziale governato da un autonomo ed efficiente sistema di relazioni industriali più che dalla logica tutta formalistica della norma inderogabile di legge.

La tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Per la prima volta dal dopoguerra, secondo le stime previsionali dell’INAIL, il tragico bilancio delle morti bianche è sceso in Italia sotto la soglia dei 1.200 casi l’anno. È un segnale positivo, ma non ancora sufficiente, che ci impone uno sforzo straordinario per rilanciare con determinazione – anche in termini di una più intensa collaborazione tra imprese e lavoratori – una nuova cultura della sicurezza che veda nella prevenzione il suo punto qualificante.

Una moderna cultura del lavoro, che ponga la persona al centro del sistema dei rapporti di produzione, non può tollerare alcun compromesso sulla integrità della vita umana, e questo anche a costo di un incremento degli oneri e dei vincoli in capo al sistema delle imprese.

Le morti e gli incidenti sul lavoro sono delle tragedie terribili, ma non sono il frutto della fatalità. Servono certamente buone norme e sanzioni effettive, ma decisivi sono poi i comportamenti concreti, e quotidiani, di tutti gli attori coinvolti. La possibile soluzione del problema è tutta di ordine sostanziale, non formale, e impone di intervenire su un complesso intreccio di fattori organizzativi, culturali e comportamentali che sono ancora radicati negli ambienti di lavoro.

La vera battaglia per ambienti di lavoro più sicuri e decenti passa inevitabilmente, ancora una volta, dalla porta della modernizzazione dei contesti organizzativi e dei modelli gestionali del lavoro, là dove vincoli formali e norme inesigibili spingono nella direzione degli abusi e della improvvisazione che sono alcune delle principali cause delle tante tragedie sul lavoro.

Un approccio per obiettivi si deve avvalere di un affidabile sistema di monitoraggio articolato per settori, dimensione di impresa, tipologie contrattuali e altri criteri utili a verificare nel tempo l’efficacia o meno delle azioni intraprese nei diversi ambiti.

Fondamentale è altresì la collaborazione tra le parti sociali nella azienda e nei territori ove le imprese sono diffuse, nel presupposto che il loro incontro dia luogo a soluzioni concretamente utili al di là della prescrizione formale, come nel caso della qualità delle attività di formazione. Nondimeno utili appaiono i sistemi incentivanti i buoni risultati, a partire dal maggiore collegamento tra il premio assicurativo e gli infortuni riscontrati.

Il diritto all’apprendimento continuo.

Nel Welfare delle opportunità l’effettivo accesso all’apprendimento assume una rilevanza strategica per lo sviluppo e la autosufficienza della persona. Il continuo aggiornamento, in tutti gli stadi della vita, è indispensabile per rimanere al passo con i mutamenti della economia, in un mercato del lavoro ove la natura delle occupazioni cambia velocemente, alcune scompaiono e altre si creano.

Si evidenziano in particolare tre linee di riforma del tradizionale sistema di formazione affinché migliori radicalmente il rapporto tra la spesa e la resa in termini di effettiva capacità di incremento delle competenze. In primo luogo il lavoro deve essere considerato parte essenziale di tutto il percorso educativo di una persona. In secondo luogo l’impresa, l’ambiente produttivo, appaiono il contesto più idoneo per lo sviluppo delle professionalità. La certificazione formale, infine, deve interessare la reale verifica delle conoscenze, delle competenze e delle esperienze di un lavoratore a prescindere dai corsi frequentati che possono al più costituire mezzo e non prova per l’acquisizione di esse.

La nuova prospettiva deve così cambiare paradigma consentendo di spostare l’attenzione dalle procedure ai risultati e, prima ancora, al destinatario. Piuttosto che concentrarsi sui fattori formali e burocratici dei percorsi formativi (durata, procedure, istituzioni e metodi pedagogici che portano a una qualifica), l’attenzione deve essere diretta alle conoscenze, competenze o abilità che la persona ha acquisito ed è in grado di dimostrare.

I sistemi di istruzione e formazione devono adattarsi ai bisogni individuali, rafforzare l’integrazione con il mercato del lavoro, rendere trasparenti e mobili le qualifiche, migliorare il riconoscimento dell’apprendimento non-formale e anche di quello informale.

L’accento sulla formazione, in questa nuova ampia accezione, sollecita la consapevolezza che, al cuore delle politiche per la occupabilità sia necessario sviluppare ampi sistemi integrati di qualifiche, che non comprendano solo quelle legate ai percorsi formali e ai titoli di studio, ma siano anzi sempre più in sintonia con i sistemi di inquadramento professionale e le mansioni contemplate dai contratti collettivi.

Centrale è la valenza educativa e formativa del lavoro – di tutte le esperienze di lavoro – che si esalta attraverso una integrazione sostanziale tra i sistemi educativi e formativi e il mercato del lavoro valorizzando modelli di apprendimento in assetto lavorativo (come il contratto di apprendistato) che possono consentire non soltanto la professionalizzazione (l’apprendimento di un mestiere), ma anche la acquisizione di titoli di studio di livello secondario o terziario compresi i dottorati di ricerca.

Le pari opportunità.

Un Welfare delle opportunità è anche, se non prima di tutto, un Welfare delle pari opportunità.

Nel confronto con gli altri Paesi, l’Italia registra ancora il maggior divario tra il tasso di disoccupazione femminile e quello maschile. Ma è soprattutto il tasso di occupazione, oggi distante di quasi 15 punti percentuali dagli obiettivi fissati a Lisbona per il 2010, a destare allarme. Meno di una donna su due in età di lavoro ha una occupazione regolare.

La disparità rispetto agli altri Paesi si concentra prevalentemente nel Mezzogiorno, dove ben tre donne su quattro in età di lavoro sono senza lavoro. In queste aree del Paese ben poco potrebbe una tassazione differenziata per genere visto che qui il problema non è tanto quello della offerta di lavoro femminile quanto, semmai, la scarsa domanda di lavoro e la mancanza di reali opportunità di impiego nella economia regolare.

Tutte le (poche) proposte oggi in discussione meritano indubbiamente attenzione e approfondimento, non solo per i vincoli imposti dal diritto comunitario della concorrenza – che vieta politiche di incentivazione economica selettive e differenziate per genere – ma anche per privilegiare un approccio pragmatico e reversibile.

Lo stesso solenne principio di parità di trattamento retributivo tra uomo e donna, sancito dal Trattato istitutivo della Comunità Europea, trova invero spiegazione nel timore di forme di dumping sociale legate a un più basso costo del lavoro femminile. E anche il legislatore italiano, con riferimento al contratto di inserimento al lavoro delle donne, si è recentemente mosso con particolare cautela, riservando una riduzione differenziata per genere della aliquota contributiva alle sole aree del Mezzogiorno, conformemente al regolamento comunitario vigente in materia di aiuti di Stato.

Non si può del resto non riflettere sulle ragioni della fallimentare esperienza della legislazione in materia di pari opportunità tra uomo e donna. L’attuale normativa costituisce un chiaro esempio dei limiti presenti in interventi poco selettivi e soprattutto poco attenti all’obiettivo di un generale miglioramento delle performance del mercato del lavoro che colloca il nostro Paese tra i peggiori anche per i tassi di occupazione maschile. Quando è invece vero che, negli ultimi anni, proprio l’Italia ha registrato un incremento del tasso di occupazione femminile superiore alla media degli altri Paesi.

La tecnica degli incentivi può avere una preziosa funzione congiunturale per la soluzione di problemi specifici del mercato del lavoro, ma non può rappresentare, di per sé, la scorciatoia per la soluzione di problemi strutturali e culturali.

Nel caso della occupazione femminile, le questioni da affrontare vanno ben oltre l’ambito di incidenza delle politiche fiscali, riguardando contestualmente le politiche di sostegno alla famiglia, le politiche di accesso alla istruzione e alla formazione professionale, le politiche previdenziali e del lavoro, le politiche sociali ed educative in senso lato e anche un migliore coordinamento tra i tempi di vita e i tempi di lavoro. La loro soluzione non può che dipendere da un approccio di genere integrato e trasversale a tutte le politiche pubbliche.

Particolare rilievo può assumere l’evoluzione della contrattazione collettiva e della prassi aziendale con riferimento alla flessibile modulazione dell’orario di lavoro oggi consentita dal cambiamento dei tradizionali modelli produttivi seriali e dalla trasformazione terziaria.

Piccoli ma significativi aggiustamenti nel rigido orario di lavoro possono consentire a molti la conciliazione tra tempi di lavoro e di famiglia senza compromissione delle possibilità di carriera. La stessa contrattazione può utilmente definire il quadro di riferimento entro il quale consentire anche accordi individuali tarati sulle specifiche esigenze delle parti del rapporto di lavoro.

La parità di opportunità riguarda ovviamente anche altre fasce svantaggiate della popolazione come gli immigrati. Per una loro più compiuta inclusione nel mercato del lavoro, i tre diritti fondamentali già citati richiedono adattamenti e forme specifiche di applicazione a garanzia della loro effettività. Lo stesso accesso all’autoimpiego deve essere garantito da modalità specifiche di sostegno alle necessarie competenze, in funzione anche della sopravvivenza di forme di artigianato altrimenti destinate alla scomparsa.

Le pari opportunità corrispondono quindi non solo a esigenze di contrasto di esclusione sociale ma anche alla piena espressione della mobilità sociale e dei suoi benefici effetti sulla crescita della economia.

5. Meriti e bisogni

La coesione sociale di una Nazione è ampiamente determinata dalla equa distribuzione – anche direttamente o indirettamente monetaria – della sua ricchezza. Equità non significa egualitarismo, ma contemporanea capacità di prevenire e sostenere i bisogni, da un lato, e di premiare i meriti, dall’altro.

Ogni distribuzione presuppone inesorabilmente una adeguata produzione di ricchezza.

Un modello sociale fondato sul binomio opportunità – responsabilità impone un impiego rigoroso delle erogazioni assistenziali o dei benefici fiscali in termini di accurata selezione degli aventi diritto e di meccanismi incentivanti i comportamenti dello stesso destinatario utili a rimuovere lo stato di bisogno.

Prestazioni troppo generose determinano l’intrappolamento dei bisognosi in una condizione di esclusione sociale.

Decise modalità di riconoscimento del merito incoraggiano la mobilità sociale e diffusi comportamenti responsabili. Esse vengono largamente accettate quando si definiscono in un contesto autenticamente competitivo ove è garantita la parità delle opportunità, sono efficientemente collegate a risultati certi e trasparenti, appaiono ragionevolmente proporzionate tra di loro e rispetto allo stesso reddito degli ultimi.

Il parametro territoriale costituisce infine un necessario riferimento per la giustizia distributiva tanto con riferimento ai salari quanto ai criteri di accesso e alla dimensione delle prestazioni assistenziali. Il nostro è infatti un Paese largamente differenziato tra le diverse aree geografiche e all’interno di esse tra le dimensioni urbane e quelle delle piccole comunità.

La lotta alle povertà e il reddito di ultima istanza.

L’organizzazione di concrete soluzioni ai bisogni degli ultimi è il primo obiettivo di una società coesa. La povertà assoluta non va peraltro confusa con la povertà relativa. La prima indica la parte della popolazione che vive al di sotto del minimo vitale e perciò sollecita interventi tempestivi e diretti per rimuoverla.

La seconda è utile a monitorare il livello delle disuguaglianze dei redditi per le necessarie politiche correttive.

La prima risposta al bisogno è il lavoro e quindi il contrasto e la prevenzione della povertà avvengono in primo luogo con la promozione di una società attiva e di un mercato del lavoro inclusivo. Un mercato efficiente, trasparente, sostenuto da servizi che non abbandonano nessuno a sé stesso e accompagnano ciascun disoccupato – anche il più difficile – con percorsi personalizzati.

Esistono tuttavia componenti della società a forte rischio di esclusione sociale e per le quali il lavoro può non essere – o essere solo in parte – la risposta al bisogno. Tra questi gli anziani soli o con un coniuge non autosufficiente, le famiglie con un solo genitore (spesso donna) e con figli minori a carico, quelle con componenti portatori di disabilità o di disagio psichico, più in generale quelle numerose. E gli indicatori di reddito, come ci insegna l’ISTAT, vanno opportunamente ritarati sulla composizione del nucleo familiare e diversamente considerati in base ai luoghi di residenza per le evidenti differenze territoriali.

In questi casi anche un intervento contenuto di diretto sostegno del reddito può essere decisivo per il soddisfacimento di bisogni vitali trattandosi di soggetti per lo più incapienti da un punto di vista fiscale e perciò insensibili a forme di detassazione.

Gli anziani indigenti sono stati destinatari di una sorta di reddito minimo garantito – giustificato dal fatto che non sono più in età di lavoro – attraverso integrazioni assistenziali alla loro pensione. E peraltro anche gli anziani – ove liberamente lo vogliano – sono ora incoraggiati a rimanere attivi attraverso la possibilità di cumulare lavoro e pensione.

In un quadro più favorevole di finanza pubblica e di certa sostenibilità del sistema previdenziale potrà essere affrontato il tema di un più compiuto adeguamento delle pensioni – a partire da quelle più basse – allo specifico costo della vita degli anziani.

Vale invece l’avvertenza, per chi è solo temporaneamente in condizioni di non autosufficienza, che questo sostegno non deve costituire una trappola che faciliti la permanenza nella condizione di emarginazione o lavoro nero. Talune sperimentazioni hanno evidenziato, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno, un sistematico ricorso al sussidio rivelatosi disincentivante rispetto alle occasioni di lavoro regolare, ponendo chiari problemi di sostenibilità sociale ed economica.

Forme di integrazione del reddito di ultima istanza potrebbero costituire una risposta più efficace per affrontare le situazioni di disagio sociale estremo intervenendo solo se e fino a quando non esistono altre possibili soluzioni, secondo soglie rigorose e modulate per territori e composizione dei nuclei familiari, collegate con percorsi di uscita dalla area di disagio.

La “carta acquisti” – comunque giudicata nel suo primo ingresso – ha oggettivamente introdotto un moderno e anonimo canale di comunicazione tra le istituzioni, gli eventuali donatori privati e una platea del bisogno assoluto che nel tempo dovrà essere ulteriormente identificata affinando i criteri di selezione.

Essenziale è il ruolo responsabile delle organizzazioni caritatevoli come dei servizi socio-sanitari territoriali – ove integrati con quelli assistenziali – e delle autonomie locali, soggetti idonei a concorrere a selezionare i destinatari di questi interventi straordinari e a realizzare buone pratiche da sostenere e diffondere.

La povertà assoluta, proprio per la sua condizione estrema e rara, non trova facilmente rappresentazione sociale e politica. È auspicabile che i diversi approcci culturali, da quello compassionevole a quello strutturale, convergano verso soluzioni pragmatiche – e reversibili ove inefficaci – con il solo scopo di raggiungere risultati tangibili.

L’inclusione delle persone disabili.

La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, da poco ratificata dall’Italia, chiude definitivamente con la logica che considera le persone con disabilità come categoria sociale. I loro diritti sono diritti di tutte le persone.

La differenza sta nel fatto che per affermarli e metterli in pratica richiedono di essere tradotti in una specifica situazione, la disabilità, sempre possibile nella condizione umana.

La disabilità è il risultato di una relazione tra salute e ambiente. Entrambi i fattori possono essere oggetto di miglioramento e di modifiche adattative. L’obiettivo, anche in questo caso, deve essere l’inclusione nella società attiva e non la sola integrazione del reddito che pure resta una necessità imprescindibile.

Nei territori più efficienti si è sviluppato un sistema di servizi integrati, accessibili e longitudinali che si propongono di assicurare alle persone con disabilità i livelli essenziali di diagnosi, cura, riabilitazione e che cercano di rendere effettivi il diritto allo studio e al lavoro e, con essi, la partecipazione alla vita sociale.

Questi sistemi evidenziano alcune criticità che riguardano, in particolare, la settorializzazione e la parcellizzazione degli interventi, la necessità di incrementare la qualità degli interventi domiciliari e di quelli residenziali, garantendo la sostenibilità dei relativi costi.

La disomogeneità dei modelli organizzativi presenti nel territorio nazionale contrappone ancora una volta il Nord al Sud.

Si impone una programmazione chiara e uniforme, che riaffermi la necessità di attivare la promozione della salute mentale nelle varie fasi del ciclo vitale (adolescenza, età giovanile, adulta, anziana), favorendo l’integrazione funzionale tra servizi a patologia limitrofa (tossicodipendenza, disabilità, disturbi cognitivi in età senile), i miglioramenti organizzativi tesi ad affrontare le patologie emergenti (disturbi del comportamento alimentare, disturbi della personalità), i percorsi differenziati per tipo di patologia, la nuova cronicità e il bisogno di lungoassistenza.

Le politiche di integrazione devono assicurare il raccordo e il coinvolgimento dei servizi sanitari e sociali nel sostegno alla persona e alla famiglia attivando, nei diversi momenti e nelle diverse situazioni, forme di affiancamento ai compiti di assistenza e servizi di sollievo.

La dotazione di servizi adeguati (educazione, apprendimento continuo, mobilità, promozione di progetti di vita indipendente, mantenimento di autonomie personali) potrà progressivamente realizzarsi attraverso il rafforzamento dei poteri delle Regioni e degli Enti locali. Un ausilio fondamentale sarà costituito dall’impiego diffuso delle nuove tecnologie che consentono di compensare ampiamente la condizione di svantaggio, soprattutto quando essa ha caratteristiche di tipo fisico.

Il fascicolo elettronico personale e l’integrazione dei servizi per il lavoro, indifferentemente pubblici e privati, saranno due strumenti fondamentali per sostenere le persone disabili. L’inclusione nel mercato del lavoro deve costituire obiettivo sostanziale, prima che vincolo formale, perseguito anche con percorsi sperimentali e pragmatici, utili a superare diffidenze ed oggettive difficoltà nella vita dell’impresa.

La soggettività sociale dell’anziano e la continuità della cura.

Il miglioramento della attesa di vita ha contribuito alla crescita della fascia anziana della popolazione. Il Welfare delle opportunità si deve porre il problema di come utilizzare questo potenziale di capitale umano nella maniera migliore e di come provvedere ai bisogni di questa popolazione anziana, soggetta a maggiori incapacità e malattie e a rischio di emarginazione sociale.

L’incremento della domanda di interventi a favore degli anziani comporta lo sviluppo di politiche utili a risolvere i nodi cruciali del finanziamento della assistenza continuativa, dell’accreditamento e della regolazione del sistema dei servizi, del sostegno delle reti informali e della emersione della assistenza.

La tradizionale funzione della famiglia quale luogo di assistenza degli anziani è ancora rilevante ma tende a diminuire. Aumenta il grado di separazione generazionale degli anziani che, sempre più spesso, vivono solo con altri anziani, in particolare nelle zone rurali soggette a spopolamento. In sofferenza appaiono in particolare le famiglie con almeno un anziano di più di settantacinque anni.

Questi nuovi equilibri impongono politiche specificamente indirizzate alla cosiddetta terza e quarta età e alla promozione dell’invecchiamento in buona salute mediante la prevenzione attiva dei principali fattori di rischio correlati anche agli stili di vita. Si tratta di garantire una condizione di benessere fisico e mentale, assicurandosi che l’impatto sui sistemi di protezione sociale possa essere governato in maniera equa ed efficiente.

La permanenza nel mercato del lavoro rappresenta la strategia centrale per combattere il disagio sociale ed economico. L’utilizzo di adeguate flessibilità (contratti a tempo parziale, lavoro ripartito, buoni lavoro per prestazioni accessorie) è particolarmente indicato per garantire ancora un ruolo attivo nella società e, nel contempo, per favorire la trasmissione di saperi ed esperienze e una uscita morbida e regolata dal mercato del lavoro.

Nondimeno, occorrono interventi di carattere assistenziale in favore della quarta età. Il sostegno rivolto all’anziano non autosufficiente deve essere fondato sul rafforzamento dei servizi socio-sanitari, su programmi di assistenza domiciliare, su una reale accessibilità alle nuove tecnologie, nonché su tipologie contrattuali in grado di contrastare prestazioni di cura rese in forma irregolare e, come nel caso dei buoni lavoro, alimentare reti di relazioni sociali.

La presa in carico non deve produrre effetti di indebolimento delle capacità dell’anziano. La medicalizzazione eccessiva e l’inappropriatezza dei trattamenti sanitari sono rischi speculari all’abbandono e alla solitudine, ma, paradossalmente, possono produrre effetti simili.

Gli interventi di prevenzione devono essere mirati a ricostituire un tessuto di relazioni intorno all’anziano solo, coinvolgendo la responsabilità di vicini di casa e familiari, e mirando a costruire, o potenziare, le reti di prossimità.

Nel nostro Paese la condizione dell’anziano è ancora fortemente sostenuta da una tenuta delle relazioni familiari più solida che in altri Paesi. Questo legame va incoraggiato e alimentato – pensiamo al fenomeno delle badanti, cresciuto dal basso, come richiesta delle famiglie – non solo e non tanto a causa di carenze di strutture pubbliche, ma per l’esigenza di un servizio flessibile, più a misura di famiglia, controllato e gestito direttamente dai parenti.

La costituzione di un apposito strumento finanziario dedicato alle persone non autosufficienti è un passaggio importante per rispondere ai loro bisogni.

Considerate le limitate disponibilità della finanza pubblica, esso va costruito mediante il combinarsi di risorse pubbliche e risorse private, la previsione di forme specifiche di assicurazioni private, nonché, ove possibile, la valorizzazione dei patrimoni immobiliari pubblici e privati.

Le politiche socio-sanitarie devono continuare ad articolare un piano della domiciliarietà a favore degli anziani mediante lo sviluppo di servizi integrati, la diffusione dell’assegno di cura a sostegno del lavoro delle famiglie, l’attivazione di servizi di sollievo e di centri diurni, la diffusione di un sistema integrato e universale di “buoni lavoro”, attraverso cui erogare servizi personalizzati e di qualità, nel quale convergano gli analoghi sistemi gestiti dallo Stato, dalle Regioni, dagli Enti locali.

Il sostegno alla famiglia.

Le politiche di Welfare devono favorire la famiglia, sostenere le giovani coppie, porre in essere interventi specifici atti promuovere la maternità e la paternità e la possibilità di conciliazione tra ciclo di vita della famiglia, tempi di cura e impegno lavorativo.

Lo strumento primario dovrà essere una regolazione fiscale premiale e proporzionata alla composizione del nucleo familiare come già è stata quella relativa alle deduzioni per carichi di famiglia. Sono altrettanto necessari l’effettivo accesso ai congedi parentali, orari dei servizi tarati non sui dipendenti ma sulle esigenze delle famiglie, prassi contrattuali tese a favorire la modulazione flessibile degli orari di lavoro.

Sempre più numerose sono le famiglie nelle quali gli anziani, coabitanti o meno, offrono il loro aiuto nelle azioni di accompagnamento e di assistenza dei minori – assicurando così alla donna la possibilità di partecipare al mercato del lavoro – oppure mettono a disposizione la loro pensione nella vita familiare. E nello stesso tempo trovano nelle famiglie la risposta ai loro bisogni e alle loro paure.

È questo il patto intergenerazionale che vogliamo promuovere. A queste famiglie vanno garantite opportune agevolazioni fiscali o anche trasferimenti monetari e in natura, sia pure con un attento controllo delle condizioni di accesso.

Allo steso modo vanno sperimentate soluzioni più innovative e meno costose, quali la possibilità di cumulare crediti per prestazioni sociali. Alle donne e agli uomini che hanno famiglie con a carico anziani non autosufficienti o familiari afflitti da particolari patologie o handicap devono essere assicurati contratti e orari di lavoro flessibili.

La leva fiscale appare la più idonea a sostenere la domanda, la libera scelta del cittadino o della impresa, in modo da rovesciare il tradizionale impianto tarato tutto sulla offerta – una offerta essenzialmente pubblica – in una logica monopolistica che spesso ha dato luogo a insopportabili inefficienze.

Il rigoroso postulato della centralità della persona nel nuovo Welfare comporta inesorabilmente una maggiore libertà di scelta e la conseguente creazione, ove possibile, di regolati mercati competitivi della offerta.

Lo sviluppo del nuovo modello familiare che vede le donne più attive nel mondo del lavoro, ha bisogno di vedere superata la insufficiente e disomogenea distribuzione territoriale dei servizi per la prima infanzia, promuovendo il consolidamento e la diversificazione della offerta di nidi e micronidi anche presso i luoghi di lavoro o le famiglie.

Nella area della prevenzione e promozione del benessere dei minori, obiettivo prioritario delle politiche sociali è oggi il sostegno alle competenze relazionali ed educative delle figure genitoriali, con particolare attenzione alla relazione precoce genitori-figli e alla genitorialità sociale quando si configura come disponibilità alla accoglienza temporanea e alla adozione.

Le politiche di integrazione sociale devono altresì garantire la protezione dei minori privi di supporto genitoriale, attraverso un modello di tutela minorile funzionale e capace di garantire un livello di integrazione tra i servizi pubblici e privati, chiamati a supplire i compiti della famiglia, contrastando il fenomeno dei maltrattamenti sui bambini mediante la attivazione di interventi riabilitativi specialistici in ambito locale, coordinando ed integrando gli interventi di prevenzione del disagio adolescenziale e giovanile.

Nella area delle politiche a favore degli adolescenti e dei giovani sono prioritari gli interventi volti a prevenire forme di disagio e atti a individuare precocemente le situazioni di rischio evolutivo e di crisi a esordio psicopatologico.

Il sistema degli ammortizzatori sociali.

Gli ammortizzatori sociali sono al centro della agenda politica da oltre un decennio. Alle leggi di riforma del mercato del lavoro hanno fatto seguito ambiziose proposte di graduale armonizzazione ed estensione dei trattamenti di disoccupazione.

L’apertura a forme di lavoro flessibile e temporaneo e l’accelerazione della frequenza dei processi di riorganizzazione della offerta produttiva hanno sollecitato, sul versante delle tutele, una revisione delle tecniche di protezione dei lavoratori, tale da spostare l’enfasi dal singolo posto di lavoro e dalla singola azienda, attraverso la cassa integrazione, alla protezione attiva della occupazione mediante l’ipotesi di un sussidio generalizzato collegato a investimenti nella occupabilità di ciascuna persona.

La recessione in corso, determinata dal veloce e diffuso crollo della domanda globale, ha tuttavia evidenziato la necessità di una adeguata pluralità di strumenti di integrazione del reddito, inclusa la conferma di quelli tradizionali ancorati alla sopravvivenza del rapporto di lavoro e concessi sulla base di un negoziato tra le parti sociali. Questi ultimi si sono rivelati particolarmente efficaci per conservare vitale – seppure in posizione di attesa – la base produttiva e occupazionale.

Tanto quanto, se vi fosse stata una prevalenza di ammortizzatori automatici connessi al licenziamento, si sarebbe di fatto incoraggiato il ridimensionamento strutturale degli occupati.

L’esperienza insegna in ogni modo la necessità di conservare due caratteristiche del sistema tradizionale. L’una, effettivamente applicata, richiede quale criterio di accesso congrui periodi lavorativi pregressi, ovviamente opinabili nella loro dimensione anche se, quando sono particolarmente ridotti, danno luogo a facili abusi. L’altra, assolutamente ineffettiva, imporrebbe la cessazione del sostegno al reddito nel caso di rifiuto di una offerta di lavoro congrua rispetto alla precedente occupazione e remunerazione o un percorso di riqualificazione. E il criterio di congruità potrebbe essere ampliato con la garanzia di una integrazione del reddito sino al precedente livello. Ne trarrebbero vantaggio tanto la spesa pubblica quanto la occupabilità della persona che si sostiene meglio nello stato di attività.

La protezione del reddito potrebbe a regime essere organizzata su due pilastri.

  • L’uno pubblico, esteso a tutti i lavori subordinati, decrescente nel tempo e modellato sulla attuale indennità di disoccupazione. Ne sarebbe una specie anche l’introduzione di una indennità di reinserimento una tantum per tutti i lavoratori indipendenti che si trovano in uno stato di dipendenza socio-economica da un solo committente.
  • L’altro privato, e fiscalmente incentivato, che dovrebbe svilupparsi attraverso la diffusione degli organismi bilaterali promossi dalle parti sociali anche grazie alla completa remissione ad essi della gestione dei fondi alimentati da contribuzioni obbligatorie dei lavoratori e degli imprenditori e oggi dedicati alla cassa integrazione.

Le parti sociali dei diversi settori decideranno liberamente in sede di contrattazione collettiva l’impiego delle risorse raccolte destinandole tanto a forme di integrazione del reddito per sospensione della attività lavorativa quanto a erogazioni aggiuntive rispetto a quelle del sistema obbligatorio nel caso di cessazione del rapporto di lavoro.

L’equa remunerazione del lavoro.

Dopo una lunghissima fase di contratti centralizzati e rigidamente riferiti alla inflazione programmata, che ha determinato bassi salari e bassa produttività, le parti sociali sperimentano nuove regole e procedure della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva.

Obiettivo condiviso è quello di sostenere, anche attraverso la riforma degli assetti contrattuali, lo sviluppo economico, la crescita della occupazione e l’incremento delle retribuzioni.

Si riconosce così il ruolo strategico delle relazioni industriali rispetto non solo ai tradizionali temi della giustizia sociale, che rimangono centrali, ma anche a quelli della competitività e dello sviluppo. Al rinnovato sistema contrattuale viene assegnato il compito di concorrere all’aumento della produttività del lavoro, a una più efficiente dinamica retributiva e, infine, al miglioramento dei prodotti e dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni.

Il buon funzionamento e l’efficienza delle relazioni industriali sono alla base della sostenibilità del sistema di protezione sociale perché ai bisogni si possono dare risposte solo in un contesto che veda premiati i meriti.

Per le parti sociali la possibilità di esaltare la loro funzione nella dimensione territoriale o aziendale si lega intimamente alla definizione di un nuovo modello di relazioni industriali funzionale a collegare i salari alla produttività del lavoro e, dunque, ai meriti individuali come collettivi. Solo in questo modo è possibile ipotizzare dinamiche retributive che a un tempo rispondano alle pulsioni salariali e alle esigenze di competitività e controllo dell’inflazione.

Il salario si definisce in termini solidali solo per la sua componente minima che in altri Paesi è regolata dalla legge nella misura media del 60 per cento circa del reddito effettivo. In Italia invece la solida tradizione contrattuale porta a mantenere in questo ambito la garanzia di una evoluzione solidale dei salari facendone il contenuto principale del contratto nazionale.

Una più marcata dinamica dei redditi da lavoro e una più efficiente distribuzione della ricchezza attraverso i salari si realizzano invece – anche in condizioni di crescita bassa o negativa – garantendo uno spazio adeguato alla contrattazione collettiva aziendale e, nel quadro di questa, anche ad accordi individuali. A regime, tutte le componenti variabili e meritocratiche del salario, nel settore privato come in quello pubblico, dovranno essere soggette a una tassazione separata in modo da essere sottratte alla logica altrimenti punitiva del merito imposta dalla progressività del prelievo.

La stessa retribuzione delle funzioni dirigenziali deve collocarsi entro regole ragionevoli, trasparenti e responsabilmente definite dalle parti nel settore privato esposto alla concorrenza mentre nel settore pubblico o negli operatori privati che operano in regime di monopolio in concessione, o beneficiano di forme di sostegno pubblico, possono essere opportune modalità, per quanto leggere, di regolazione formale.

Una efficiente remunerazione di tutti i lavori secondo comprensibili proporzioni e con la garanzia di livelli minimi, incoraggia il merito, evita il formarsi di lavoratori poveri e sostiene – come già rilevato – la coesione della società.

Partecipazione e bilateralità.

Il decentramento contrattuale consentirà di sviluppare le esperienze e i compiti degli organismi bilaterali territoriali per una gestione condivisa dei mercati locali del lavoro e dei servizi che danno valore alla persona quali sicurezza, formazione, integrazione del reddito, ricollocamento, certificazione del contratto di lavoro.

La maggiore attenzione della contrattazione collettiva al sostegno dei servizi rivolti a incrementare la dotazione di forme di protezione sociale dei lavoratori è destinata a sviluppare ulteriormente gli enti bilaterali nazionali dedicati alla previdenza complementare, alla assistenza sanitaria, agli oneri per la non autosufficienza, i quali abbisognano di una idonea massa critica.

La definizione meritocratica di una parte crescente del salario porta peraltro i lavoratori a esprimere una domanda crescente di controllo e partecipazione rispetto alla vita e ai destini della impresa che – in forme ordinate – può essere interesse di molte imprese accogliere. I lavoratori già partecipano dei profili negativi del rischio d’impresa, considerate le crescenti variabili che caratterizzano i mercati.

Per questo è ragionevole l’aspirazione a condividere anche i profili positivi del rischio come la partecipazione agli utili d’impresa, comprese le forme di azionariato in forme tipiche o speciali che il legislatore potrebbe regolare e promuovere. Rimane essenziale l’esigenza di garantire una guida certa e responsabile della impresa senza confusione dei ruoli.

Bilateralità e partecipazione rappresentano la soluzione più autorevole e credibile per superare ogni residua cultura antagonista nei rapporti di produzione e avviare, in un rinnovato clima di fiducia e collaborazione, una virtuosa alleanza tra capitale e lavoro sui temi della crescita, dello sviluppo e della giustizia sociale in un mondo ragionevolmente destinato a sopportare frequenti cause di instabilità.

6. La sostenibilità del modello sociale

La concreta possibilità di periodiche fasi di instabilità delle economie rende il tema della sostenibilità estremamente importante per garantire coesione sociale senza ostacolare la crescita.

Il Welfare italiano è debole negli istituti che sostengono la vita attiva, appesantito – peraltro – da un finanziamento pressoché esclusivo sugli attivi, condizionato da una polarizzazione eccessiva della spesa sulle pensioni, segnato da un servizio socio-sanitario inefficiente e oneroso nel Centro-Sud.

Con il declino dei tassi di fertilità e l’aumento della aspettativa di vita, nel 2050 ogni italiano in età da lavoro sarà chiamato a contribuire al finanziamento delle prestazioni pensionistiche e sanitarie degli ultrasessantacinquenni con una quota superiore al 42 per cento del PIL pro capite, mentre per gli occupati il peso sarà superiore al 62 per cento. Un onere insostenibile sul reddito degli attivi, che disincentiva il lavoro regolare e penalizza il risparmio, gli investimenti, la produttività.

Se si considerano congiuntamente gli andamenti di spesa previsti per pensioni e sanità, per condurre il debito pubblico al 60 per cento del PIL nel 2050, l’Italia dovrebbe generare un profilo di avanzi primari in costante aumento, sino a superare il 10 per cento del PIL. Si tratta di requisiti irrealistici, che potrebbero essere raggiunti unicamente compromettendo funzioni essenziali o innalzando la pressione fiscale e contributiva a livelli insostenibili.

Il primo obiettivo per la sostenibilità del modello sociale rimane pertanto l’incremento della natalità e dei tassi di occupazione regolare.

All’incremento dei contribuenti e alla efficienza delle prestazioni si deve quindi aggiungere la promozione di una pluralità di fonti e di modalità di finanziamento anche allo scopo di organizzare in termini più convenienti la spesa sociale privata che comunque si induce dai limiti della offerta pubblica.

Un ruolo crescente è destinata a svolgere la contrattazione collettiva che già oggi ha avviato esperienze di gestione condivisa tra le parti di fondi dedicati alla previdenza complementare, alla sanità integrativa e alla protezione della non autosufficienza. Tali fondi realizzano una negoziazione o regolazione più efficiente delle relative prestazioni.

Una visione per il futuro: il sistema multipilastro.

Fino a quando la pressione fiscale e contributiva sugli attivi rimane contenuta e il sistema economico cresce, gli aspetti positivi dei sistemi di Welfare a ripartizione tendono a prevalere.

Invecchiamento della popolazione e bassa crescita fanno tuttavia sì che il finanziamento delle prestazioni del Welfare attraverso la ripartizione rappresenti un onere troppo pesante per gli attivi, con effetti equivalenti a quelli di una tassazione elevata e di una eccessiva intermediazione dello Stato nella allocazione delle risorse.

Quando una quota troppo elevata del reddito prodotto viene prelevata per finanziare prestazioni non pienamente appropriate e dilazionate nel tempo, si ingenerano effetti che incidono negativamente su occupazione e crescita determinando un circolo vizioso che conduce al collasso del sistema.

È pertanto necessaria una diversificazione delle fonti di finanziamento del sistema sociale con la definizione di proporzioni sostenibili per il funzionamento a “ripartizione” e con l’identificazione degli ambiti di sviluppo del canale di finanziamento a “capitalizzazione reale”.

Il finanziamento a “capitalizzazione” non può, per sua struttura, perseguire direttamente finalità redistributive.

Vero è tuttavia che il finanziamento a capitalizzazione genera risorse finanziarie che, se opportunamente indirizzate, possono attivare investimenti di lungo termine i quali alimentano il processo di produzione e contribuiscono a generare sviluppo.

Se per le persone il concorso obbligatorio alla ripartizione è assimilabile al prelievo fiscale, la contribuzione a piani di investimento privati rimane una scelta volontaria di risparmio e non provoca effetti negativi sulle scelte individuali di lavoro e di produzione.

Il rinnovamento del Welfare richiede, conseguentemente, una combinazione equilibrata tra finanziamento a ripartizione e finanziamento a capitalizzazione.

L’universalismo selettivo.

Per garantire la sostenibilità ed evitare il razionamento delle prestazioni è necessario tener conto delle possibilità di spesa. È questo il principio guida dell’universalismo selettivo, che ne segna la distanza dall’utopia di un universalismo assoluto, che non fa i conti con la scarsità delle risorse e con la sostenibilità.

L’universalismo selettivo sancisce il principio della parità dei cittadini nell’accesso alle risorse e, allo stesso tempo, pone i presupposti per la sostenibilità finanziaria e il controllo della qualità dei servizi. È un modello che valorizza la responsabilità degli individui e la capacità dell’attore pubblico di stabilire ordini di priorità e dosare le risorse per mantenere il più possibile ampia la platea delle prestazioni e dei beneficiari, nel rispetto degli equilibri finanziari e senza introdurre discontinuità nei trattamenti.

L’universalismo selettivo richiede il coordinamento e una leale collaborazione tra Stato, Regioni ed Enti locali, per coniugare coesione e responsabilità. La previsione di flussi perequativi tra i territori si fonda su principi e regole di selettività omogenei.

Tariffazioni e compartecipazione ai costi sono due strumenti utili alla realizzazione dell’universalismo selettivo. Se graduata in funzione delle condizioni economiche e socio–sanitarie dei beneficiari e della natura delle prestazioni richieste, la compartecipazione promuove efficienza senza incidere eccessivamente sui redditi e senza intaccare la finalità redistributiva e assistenziale degli interventi.

Un ruolo analogo è svolto dalle tariffe per le prestazioni sociali prodotte dall’operatore pubblico o con produzione finanziata dall’operatore pubblico. Le tariffe danno conto delle risorse impiegate nella produzione di beni e servizi, inducono il fruitore di prestazioni a una comparazione attenta tra benefici individuali e costi di produzione a carico della collettività.

La diversificazione degli istituti di Welfare.

Lo sviluppo di un sistema a più pilastri e l’affermazione del principio di universalismo selettivo aprono nuovi spazi per reindirizzare il finanziamento a ripartizione, permettendo una adeguata diversificazione degli istituti di protezione sociale.

Le prestazioni di assicurazione del lavoro e quelle espressamente redistributive e assistenziali non possono prescindere dal finanziamento a ripartizione.

Eppure sono proprio questi istituti che, a causa del ricorso quasi esclusivo alla ripartizione per finanziare pensioni e sanità, si ritrovano a corto di risorse e sottodimensionati.

Per questa ragione, la diversificazione multipilastro investe prioritariamente le pensioni e le prestazioni sanitarie integrative. È con riferimento a questi due capitoli che vanno identificate le modalità di sviluppo del pilastro a capitalizzazione, sia dimensionandolo che definendone i rapporti con il pilastro di base.

La diversificazione degli strumenti di Welfare può essere realizzata nei livelli essenziali definiti dallo Stato, ma richiede, per i sottolivelli di governo, la possibilità di sperimentare formule nuove, in relazione alle specificità e alle preferenze dei cittadini. In un quadro organico e completo, questa possibilità può spingersi sino a riconoscere ai cittadini, come singoli o in formazioni associate, la possibilità di partecipare alla definizione degli interventi e alla loro organizzazione funzionale.

Il Welfare della società attiva tra fiscalità e contribuzioni individuali.

La varietà e la dinamicità delle situazioni di individui e famiglie richiede di accompagnare le diverse fasi del ciclo di vita differenziando tutele e servizi, promuovendo scelte responsabili e comportamenti virtuosi.

È importante pervenire a una distinzione chiara tra prestazioni redistributivo/assistenziali, cui la persona ha diritto in quanto membro della società, e prestazioni assicurative, a cui si accede attraverso il lavoro e le contribuzioni individuali o canalizzate dalla bilateralità.

Le prestazioni redistributivo/assistenziali dovranno impiegare risorse della fiscalità generale ed essere finanziate dallo Stato o dagli altri livelli di governo.

Nel riconoscimento di queste prestazioni non valgono distinzioni di condizione occupazionale o di appartenenza di settore o comparto, ma principi generali di priorità riferiti a caratteristiche soggettive od oggettive dell’individuo.

Le prestazioni assicurative sono caratterizzate da istituti che per loro natura si rivolgono a platee predefinite e sono finalizzati al trasferimento di reddito nel tempo, come nel caso delle pensioni, o alla copertura di rischi specifici, come nel caso della assicurazione contro la disoccupazione e di quella contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

In questo quadro le pensioni non sono uno strumento idoneo a svolgere prioritariamente funzioni di carattere redistributivo/assistenziale. Ciò non significa, tuttavia, impedire che provvidenze assistenziali – in denaro o in natura – vadano agli anziani privi di mezzi. È vero il contrario.

Evitando flussi redistributivi generalizzati e poco trasparenti veicolati dalle regole delle pensioni è possibile liberare risorse per interventi specifici contro l’indigenza in età avanzata. A loro volta, le assicurazioni sul lavoro, che si rivolgono in maniera specifica agli occupati, dovranno essere il più possibile autofinanziate da contribuzioni, dalla valorizzazione della bilateralità e da un sistema a ripartizione circoscritto a questa platea.

La sostenibilità del sistema pensionistico.

Le proiezioni di lungo termine evidenziano la stabilizzazione dell’incidenza sul PIL della spesa pensionistica. Nondimeno, con un valore al di sotto del 14 per cento solo dopo il 2055, le pensioni finiscono per sottrarre spazio alle altre funzioni del Welfare da finanziare a ripartizione, essenziali sia per la tutela degli individui lungo tutta la vita sia per la stabilizzazione anticiclica della economia e per la promozione della occupazione.

La stabilizzazione di lungo termine della incidenza della spesa pensionistica pubblica non è di per sé un risultato soddisfacente. Essa nasconde molte pensioni di livello medio–basso, in molti casi insufficienti a superare la soglia di povertà, a causa di carriere brevi e discontinue e di tassi di accumulazione dei contributi pensionistici bassi in linea con la dinamica del PIL. Con il risultato che tanti pensionati domanderanno prestazioni assistenziali che, non essendo state programmate finanziariamente, potrebbero non essere disponibili per tutti.

L’obiettivo, pertanto, non può essere soltanto la stabilizzazione della spesa sul PIL, ma anche una eventuale ridefinizione dell’equilibrio tra le fonti di finanziamento che possa creare le condizioni per profili di contribuzione pensionistica più contenuti, a parità di obiettivo in termini di tasso di sostituzione complessivo (pubblico e privato).

Le possibili condizioni di ricorrente instabilità dei mercati finanziari e immobiliari inducono a rafforzare i criteri di stabilità nel lungo periodo delle gestioni previdenziali private – tanto sostitutive quanto complementari – anche attraverso fondi associati di garanzia delle prestazioni.

Nella gestione della transizione verso il nuovo assetto, un ruolo cruciale riveste l’allungamento delle carriere e il raggiungimento di proporzioni più equilibrate tra vita attiva e vita in quiescenza dopo il pensionamento definitivo.

L’allungamento delle carriere ha una importanza primaria per disegnare un Welfare capace di offrire tutele e rispettoso delle compatibilità economiche.

All’innalzamento della speranza di vita non può non corrispondere un aumento degli anni di lavoro, quelli dedicati alla produzione delle risorse necessarie a garantire la qualità di una vita più lunga. Se ciò non avverrà, generazioni di adulti e anziani sempre più numerose graveranno in misura crescente sulle risorse prodotte dalle giovani generazioni.

In questa prospettiva, l’obiettivo della equiparazione dei requisiti pensionistici tra uomini e donne richiede una preventiva evoluzione del mercato del lavoro nei termini di una maggiore inclusione del lavoro femminile, altrimenti doppiamente penalizzato.

La pensione dovrà essere posta sempre più in stretta connessione finanziario–attuariale con la storia contributiva e con la speranza di vita attesa dopo il pensionamento. In questo modo, il lavoratore è incentivato a rimanere attivo e può beneficiare dei maggiori contributi.

La convergenza verso un metodo omogeneo di definizione del rapporto tra contribuzioni e prestazioni nel pilastro pubblico per tutti i redditi da attività di lavoro e professionale può e deve essere perseguita attraverso una attenta negoziazione con le organizzazioni degli interessi.

La sostenibilità del sistema sanitario: il federalismo sostenibile responsabile.

La sostenibilità del sistema sanitario è correlata ad alcuni presupposti e fattori primari (deospedalizzazione, innovazione tecnologica, consolidamento del “governo clinico”, sviluppo di forme di assistenza integrativa) e a un sistema di governance che favorisca responsabilità, solidarietà, equità, nonché rigorosi principi di efficienza ed efficacia del modello erogatorio pubblico e privato.

Una rinnovata governance dovrà sostituire il finanziamento derivato dal bilancio dello Stato attraverso il Fondo sanitario nazionale e promuove la responsabilizzazione di amministratori pubblici e cittadini nella gestione delle risorse pubbliche.

Nella prospettiva di un federalismo sostenibile e responsabile le risorse necessarie a finanziare il complesso delle prestazioni sanitarie ricomprese nei livelli essenziali sono generate, Regione per Regione, da un mix di fonti. La spesa eccedente rispetto al livello efficiente dovrà rimanere, completati i processi riorganizzativi, a carico delle Regioni e trovare copertura in aumenti della pressione fiscale, nello spostamento di risorse all’interno del bilancio, o in compartecipazioni da parte dei fruitori.

Federalismo sanitario non significa ovviamente abbandonare a sé stesse intere aree geografiche o ancorare la spesa al reddito prodotto in loco e al conseguente gettito fiscale, ma il passaggio dal finanziamento della spesa storica – che spesso incorpora alti livelli di inefficienza – ai costi standard, ovvero al finanziamento dei servizi erogati secondo principi di efficienza e appropriatezza. Tali costi vanno individuati in termini sintetici in rapporto alla popolazione sulla base delle migliori gestioni regionali e lo stesso correttivo demografico deve essere calcolato secondo le esperienze più efficienti rispetto alle fasce anziane della popolazione regionale.

I costi standard sono lo strumento più equo ed efficace per guidare i processi di cambiamento e rappresentano la base per determinare la futura allocazione delle risorse. Il differenziale tra costi standard e costi storici costituisce la misura di quanto deve essere recuperato in termini di migliore efficienza, appropriatezza delle cure e del modello organizzativo.

I livelli essenziali di assistenza (LEA) vanno ripensati come uno strumento in grado di conciliare sostenibilità del sistema, diritti del cittadino, accesso ai servizi, appropriatezza e sicurezza delle cure.

I LEA devono trovare una dimensione oltre che qualitativa anche quantitativa, correlata alle migliori pratiche diagnostiche e terapeutiche, alla medicina basata sulla evidenza, a processi di benchmarking almeno interregionali sui costi delle principali funzioni assistenziali. Una distorta applicazione dei LEA si traduce, di fatto, in una maggiore spesa a carico del cittadino e in un razionamento iniquo delle prestazioni.

L’aumento della domanda e dei bisogni conseguenti alla rivoluzione epidemiologica dell’ultimo ventennio comporterà una crescente spesa sanitaria difficilmente sostenibile dalla fiscalità generale anche in presenza di una gestione più virtuosa della spesa.

È necessario pertanto che il pilastro a capitalizzazione reale si sviluppi anche in ambito sanitario e assistenziale, valorizzando le possibili sinergie e complementarità con il pilastro pensionistico privato, anche su impulso di una attenta riconsiderazione degli aspetti di organizzazione funzionale e di quelli di trattamento fiscale.

La crescita di un nuovo secondo pilastro con nuove forme integrative di assistenza sanitaria e socio-sanitaria, rivisitando anche lo strumento delle società di mutuo soccorso, è rilevante anche al fine di valorizzare nuove forme di produzione dei servizi che fanno tradizionalmente parte dell’offerta dello Stato sociale.

Pubblico e privato debbono porsi in posizione sinergica rispetto ai bisogni di salute da soddisfare e pertanto adeguarsi alla programmazione sanitaria in termini di tipologia della offerta, modalità di erogazione delle prestazioni e dei volumi di attività ritenuti congrui rispetto ai bisogni.

La questione della governance e della sostenibilità si pone anche per le Aziende ospedaliere universitarie e per i Policlinici. Occorre sviluppare nuove modalità gestionali improntate a principi manageriali che responsabilizzino nelle scelte economiche, assistenziali, didattiche e di ricerca tutti i soggetti interessati e massimizzino la sinergia con il sistema ospedaliero regionale.

La Regione, per affermare realmente la centralità della persona rispetto alla offerta, deve assumere una posizione “terza” di controllore neutrale della qualità, della libera scelta del paziente, della sicurezza delle cure, della conformità medica delle prestazioni e dei relativi volumi.

Devono essere introdotti modelli in grado di premiare e incentivare le realtà più virtuose, penalizzando di conseguenza le realtà meno efficienti e non rispondenti alle mutate esigenze dei pazienti e della qualità complessiva del sistema.

Erogatori pubblici e privati dovranno adeguare i loro modelli organizzativi di offerta ai trend internazionali consolidati che impongono una consistente riduzione del numero di ospedali generalisti per acuti (soprattutto di piccole dimensioni), la creazione di reti ospedaliere a elevata tecnologia e contenuto professionale, lo sviluppo della filiera assistenziale territoriale di cure primarie ed extraospedaliere.

Clinical governance, e-medicine, health technology assessment, risk management. Sono parole chiave, mutuate dal mondo anglosassone che introducono una nuova cultura del governo sanitario, già praticata anche nelle realtà più avanzate del nostro Paese.

Il cambiamento di cultura è profondo. Comporta una dialettica strutturata tra gli attori delle politiche sanitarie che includono le competenze mediche, tecnologiche e manageriali. Né può prescindere dallo sviluppo di processi di aziendalizzazione e da una accelerazione meritocratica che investe l’intero mondo sanitario.

Il principio di competenza “all’accesso” (valutazioni dei curricula, percorsi professionali) e la valutazione periodica dei risultati e degli obiettivi assegnati devono diventare una costante per direttori generali di azienda sanitaria e ospedaliera, direttori di unità operativa e di dipartimento nonché per gli incarichi dirigenziali.

Non ultimo si pone l’obiettivo del potenziamento degli investimenti di edilizia sanitaria e ospedaliera e delle relative tecnologie impiantistiche che hanno un ruolo insostituibile nel razionalizzare i processi di cura, comprimendone i costi fissi e la duplicazione dei servizi e dei presidi ospedalieri.

Una cultura del dono e della solidarietà.

Non si può infine non ricordare il contributo che danno alla sostenibilità del nostro sistema di Welfare le tante azioni generose che ogni giorno, singolarmente o in modo associato o cooperativo, compiono gli Italiani. Nessun sistema potrà fare a meno dei sacrifici, grandi o piccoli, che tantissime persone donano quotidianamente per il bene comune concorrendo alla coesione sociale.

La storia del nostro Paese sembra una vera e propria storia del dono, grazie alle opere che sono nate a sostegno, tutela e promozione della persona. Dalla salute alla educazione, dalla casa al lavoro, non ci sono spazi che l’impeto di carità non abbia coperto in maniera sapiente, umile ed elastica.

La distribuzione non omogenea di tali attività è peraltro determinata dalle caratteristiche dei diversi modelli organizzativi dei servizi pubblici locali. Ove questi sono inefficienti e non valorizzano le funzioni territoriali non creano le condizioni per lo sviluppo del volontariato che ha bisogno della assegnazione di ruoli definiti. La inefficienza si rivela così doppiamente onerosa.

Tutto ciò significa infine confermare e rafforzare gli strumenti di sostegno dello Stato alle iniziative generose della società, dalle agevolazioni fiscali alle donazioni, alla regolazione agevolata delle imprese sociali, alla possibilità per i contribuenti di disporre liberamente di una parte del prelievo fiscale a loro carico indirizzandolo a soggetti meritevoli opportunamente selezionati. È necessario aprire una “stagione costituente” per il terzo settore dedicata a produrre le soluzioni legislative idonee a promuoverne le straordinarie potenzialità.

La carità, componente essenziale dell’uomo, si esplicita quotidianamente nel lavoro e nella inesausta inventiva di ciascuno, impegnato a rispondere al bisogno proprio e altrui. Dalla carità nasce una capacità di costruzione sociale, la quale, secondo una pluralità di forme e direzioni, ha letteralmente dato un volto al nostro Paese.

7. Conclusioni

Questo Libro Bianco, cui seguiranno i piani d’azione per i diversi ambiti di riforma, vuole contribuire all’ulteriore sviluppo del dialogo sociale con lo scopo di promuovere la condivisione – tra le istituzioni e gli attori sociali – degli obiettivi di stabilità e crescita ed insieme di equa distribuzione dei risultati che saranno conseguiti. La condivisione è un requisito implicito nei valori e nella visione del Libro Bianco dalla dimensione generale del Paese, a quella del territorio e dell’impresa. L’equilibrio degli interessi e lo “scambio” virtuoso tra i soggetti del dialogo costituiscono strumento imprescindibile per la realizzazione del bene comune perché mobilitano tutte le energie vitali della Nazione.

Solo in un quadro di stabilità della finanza pubblica e di ripresa di produzione della ricchezza sarà peraltro possibile realizzare gli obiettivi qui descritti per una vita buona nella società attiva.

 
 
 

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